martedì 16 maggio 2017

ERRORI VECCHI NELLA «STORIA DEI, CRISTIANESIMO» DEL PROF. E. BUONAIUTI (II)[*]

La Civiltà Cattolica anno 69°, vol. II, Roma 1918 pag. 48-58.

8. Il pensiero religioso di S. Paolo del tutto alieno dalla misteriosofia.

Non è guari difficile scoprire negli Scritti dell'Apostolo quali fossero state le fonti della sua concezione religiosa. Abbiamo, nella letteratura canonica del nuovo Testamento, tre frammenti autobiografici di S. Paolo, della cui autenticità sostanziale nessuno ha mosso mai il minimo dubbio. In essi ci è dato vedere la psicologia religiosa dell'Apostolo dalla sua prima età sino quasi al termine della sua vita, verso l'anno 63.
Nel primo, Act. 22, 1-3, ci racconta come dal focolare domestico passò a Gerusalemme per esservi educato (τεθραμμένος) ai piedi di Gamaliele, e fece i primi passi nella vita pubblica al tempo del martirio di S. Stefano. Nel secondo, Gal. 1, 11 - 2, 21, dopo avere accennato la sua vita pubblica prima della conversione, descrive partitamente il corso del suo ministero sino al tempo in che scrive l'epistola, cioè verso l'anno 51 o 52. Il terzo, Philip. 3, 4-16, compie le notizie sulla sua vita apostolica sino all'anno 62 o 63. Tutti e tre questi documenti, comecchè diretti dall'Apostolo a giustificare il suo vangelo di fronte ai suoi avversari, ci rivelano non soltanto quali furono durante la sua vita intera, segnatamente intorno alla sua conversione, le cure del suo spirito in punto di religione, ma altresì quali erano le accuse che gli opponevano i suoi emuli; per tal modo essi ci apprestano una documentazione, benchè indiretta, di prim'ordine, per giudicare della «rielaborazione della sua esperienza religiosa» nelle proprie e genuine fonti, lungi dalle quali va a cercarla il prof. Buonaiuti.
In tutti e tre i frammenti non si scopre la benchè minima traccia d'influsso pagano misteriosofico nella sua psicologia religiosa, nè verun accenno di difesa contro una siffatta imputazione. Secondo il primo passo, durante il periodo di vita anteriore alla conversione, nei suoi studii con Gamaliele, l'unica sollecitudine del giovane Saulo era quella di formarsi un perfetto rabbino. Dicendosi egli τεθραμμένος, enutritus, educato in Gerusalemme, questo periodo ci conduce sino alla prima giovinezza di Saulo, ed in esso certamente il giovane scolaro non respirava se non le idee e l'insegnamento delle scuole rabbiniche palestinesi, contrarie all'estremo a qualsiasi ellenismo, principalmente a quello religioso, essendo esse dirette quasi esclusivamente da farisei. Terminati gli studi, Saulo si dimostra in pubblico come fariseo fervente, che non ammette rivali nel zelo per la legge e per le tradizioni giudaiche (Act. 22, 3; Gal. 1, 14). Or si giudichi da ciò qual luogo avesse potuto tenere nel suo animo la misteriosofia ellenista, proprio quando l'ellenismo non aveva in oriente, ed in quel tempo appunto, nemico più accanito del fariseismo [1].
Quello che si operò nel suo animo al tempo della sua conversione e negli anni susseguenti, ce lo dice l'Apostolo negli altri due passi. Nel primo, protesta, invocando Dio a testimonio, che il vangelo da lui predicato non l'ha ricevuto dagli uomini, ma per rivelazione da Gesù Cristo (Gal. 1, 12) aggiungendo però che esso è identico a quello dei Dodici (Gal. 2, 6-9). Or questo evangelo dei Dodici procedeva forse dalla misteriosofia ellenistica? Nell'altro passo (Philip. 3, 4-16), dopo avere ricordato le sue glorie gentilizie, confessando di averle tenute un tempo in alta stima, aggiunge: «però queste cose che io per l'innanzi riputavo guadagno, ora, possedendo Cristo, le stimo una perdita; anzi, tutto ciò e qualsiasi altra gloria fuori di Cristo, tengo in conto d'immondezza»! Donde si inferisce che la «rielaborazione della sua esperienza religiosa» compiuta dall'Apostolo nella sua conversione, fu una fortissima riscossa di tutto il suo essere per gittare molto lontano dal suo spirito, nell'ordine religioso, ogni e qualsiasi particella che potesse essere estranea a Cristo ed alle fonti genuine del solo cristianesimo. E se egli ciò fece rispetto al criterio giudaico, crasso e carnale, nell'interpretazione del vecchio Testamento, quanto più l'avrebbe fatto rispetto a qualsiasi altra parte d'origine profana e tanto abietta ai suoi occhi, come la misteriosofia ellenistica, se, esaminando il suo interno, vi avesse scoperto traccia di siffatta abominazione! L'avversione profonda che suscitava in S. Paolo il gentilesimo come istituzione religioso-morale appare in tutto il suo rilievo, nei passi: Rom. 1, 18-32; I Cor. 10, 20; 12, 2, ecc. Or noi sapremmo grado ai signori sostenitori del sincretismo paolino, ed al prof. Buonaiuti che ricalca e sopravanza le loro orme, se ci indicassero la parte onde potè trarre argomento per la «rielaborazione della sua esperienza religiosa» tra quello che egli dice dei pervertimenti pagani, singolarmente nel primo passo citato della sua lettera ai romani! Or è indubitato che ivi appunto l'Apostolo intende presentarci la parte più eletta del paganesimo: filosofi, magistrati, legislatori, sacerdoti. Colui che descrive con sì foschi colori le istituzioni pagane, poteva mai sentirsi inclinato a prendere da esse proprio il principio fecondatore delle sue più auguste concezioni, come osano sostenere o insinuare quei signori critici! Il paradosso, il sacrilegio ed il ridicolo si danno la mano nelle teorie di costoro!
Non si scorge neanche, nei citati frammenti autobiografici, nessun accenno di difesa contro un'accusa che necessariamente non sarebbe potuta mancare nell'ipotesi del Buonaiuti e dei suoi maestri nella critica. Gli avversari di S. Paolo venivano dal fior fiore del fariseismo (Act. 6, 7; 11, 1; 15, 2. 5); or se questi gli rinfacciavano la sua condizione avventizia nel cristianesimo ed il non avere avuto fonti domestiche d'informazione sul vangelo autentico in confronto con i Dodici, non è difficile congetturare che ben alto avrebbero lanciato il grido d'indignazione e designato alla pubblica esecrazione la sua dottrina, se vi avessero scoperto come principale nucleo e fondamento il fermento pagano che suppongono i nostri critici. La sola grave accusa che possano fargli i suoi più furenti nemici non è altra da questa: «predicare egli ai giudei della Diaspora l'abbandono del mosaismo» (Act. 21, 21. 28); non mai fanno il minimo cenno dell'abominabile miscuglio di simboli pagani col vangelo o con la legge.

9. Le fonti genuine della dottrina di S. Paolo.

Ma vi ha di più. S. Paolo non si contenta di manifestarci la sua psicologia religiosa, le sue effusioni cristiane e la sua avversione per qualunque cosa fosse, sotto il rispetto religioso, in qualsiasi modo, aliena dal puro pensiero e sentimento cristiano; ma ci dice in chiari termini ed espressamente quali furono le fonti onde attinse le sue dottrine.
1.° Nel luogo già citato, Gal. 1, 11-12, protesta, come vedemmo, e conferma le sue asserzioni con solenne giuramento, (1, 20) che il vangelo, da lui predicato tra le genti, non l'ha ricevuto dagli uomini, ma per rivelazione divina [2]. Potrebbe l'Apostolo fare un'affermazione così categorica e solenne, se nel suo sistema religioso gli elementi misteriosofici avessero avuto quella parte che suppone il Buonaiuti con i suoi maestri? Secondo questi, siffatti elementi non sono secondarii: secondo il Buonaiuti costituiscono il midollo della dottrina di Paolo nei dommi più vitali; secondo il Reitzenstein, si manifestano «in imagini di mirabile profondità» (pag. 51). Or domandiamo: avrebbe potuto l'Apostolo tenere e dare siffatti elementi come rivelazione divina con esclusione di qualsiasi infiltrazione umana, senza essere sfacciatamente mentitore e spergiuro, o grossolanamente illuso?
2.° Secondo la dottrina esposta da S. Paolo a principio della sua epistola ai Romani (1, 2. 3), il vangelo in istoria ed il vangelo in promessa sono due fasi di una identica rivelazione: il vangelo predicato dall'Apostolo come realtà ora compiuta in Gesù, nella sua persona, missione, ufficii, è il medesimo vangelo, promesso già da Dio per i suoi profeti sul Figliuolo suo. Ecco una seconda fonte della concezione paolina; giacchè non poteva l'Apostolo non cercare ispirazione sopra Cristo ad una fonte che egli riconosceva divina, la quale gli apprestava da parte del medesimo Dio quanto avrebbe potuto desiderare sulla persona augusta di Gesù e sulla sua missione riparatrice nel mondo. In effetto, l'intera misteriologia di S. Paolo intorno a Gesù non riconosce altra origine da questa. La sua concezione sulla redenzione del genere umano compiuta dall'Uomo-Dio, che muore e risuscita per condurre a termine questa impresa, si incontra in tutti i suoi particolari nei profeti, segnatamente in Isaia, 49, 4-8, e con maggiore ampiezza in 52, 13 - 53, 12, dove il profeta ci dà la dottrina intera sulla redenzione per la morte espiatoria e vicaria con i suoi rispettivi frutti nei credenti. Ivi Dio carica sul suo Servo le iniquità di tutti gli uomini (53,6); ed il Servo accetta questo carico (53, 4), offrendosi volontariamente alla morte (53, 7. 10. 12); con le sue ferite e con la sua morte ricevono gli uomini salvezza (53, 5); Egli li lava e giustifica (52, 15: 53, 11). Con la sua morte non termina l'opera salvatrice di lui: compito il suo sacrifizio, vede fruttificare nelle sue mani l'opera di Dio (53, 10); e molti restano incorporati a Lui nel corso dei secoli (53, 8. 10), il che vuol dire che egli vive dopo la sua immolazione, rimanendogli una gloria postuma perpetua, la quale non è se non quella susseguente alla sua risurrezione.
Potrebbe opporsi, che nelle descrizioni dei passi citati di Isaia non appare la divinità del Servo. La risposta è semplice: l'identità di questo personaggio col sovrano di 9, 6-7 ed 11, 1-13 è indubitata, e non è meno indubitata la divinità di questo sovrano in 9, 6. Nessuno di questi tratti può dirsi originato dall'ellenismo, giacchè, anche per concessione dei critici più audaci, «i poemi 42, 1-4; 49, 1-6: 50, 4-9: 52, 13 - 53, 12 sono del medesimo autore, il quale è più antico dell'autore di 55-66; e questi, a sua volta, è anteriore a Nehemia» [3]: il che importa che i tratti anzidetti precedono di più d'un secolo e mezzo i tempi di Alessandro.
Che tutta la cristologia di S. Paolo sia presa dall'antico Testamento, (non escludendo, com'è chiaro, 1 Cor. 15, 3-5; e segnatamente, rispetto alla Passione ed Eucaristia, 1 Cor. 11, 23, e le illustrazioni della storia evangelica per bocca dei discepoli di Gesù) lo dichiara in termini espressi lo stesso S. Paolo, negando qualsiasi influsso di fonti estranee, in quel discorso appunto (innanzi ad Agrippa), dove il Buonaiuti pretende scoprire «lo stadio della sua compiuta evoluzione» misteriosofica, ed il «segno più chiaro di quella fusione che operò Paolo delle credenze mistiche nel cristianesimo» il quale segno è «l'identificazione della luce con Dio, e delle tenebre con Satana» (pag. 169-170). In questo discorso, S. Paolo dichiara espressamente di «continuare sino al presente giorno (sin da quando, alla sua conversione, ricevette la missione di predicare il vangelo a tutte le genti) a fare testimonianza innanzi ai piccoli ed ai grandi, senza proferire cosa alcuna nella sua predicazione, fuori di quello che Mosè ed i profeti avevano dichiarato doversi compiere nel futuro» (Act. 26, 22). Per quanto spetta la doppia imagine del regno o dominio delle tenebre e della luce ad esprimere la condizione dei gentili prima e dopo il vangelo, essa è familiarissima ad Isaia (8, 20; 9, 2; 42, 6. 7. 49, 6. 9: 60, 1-3; ecc.). La identificazione della luce con Dio, e delle tenebre con Satana, che sarebbe contenuta nel discorso di S. Paolo innanzi Agrippa, non si trova punto nel detto discorso, ma si legge soltanto, asserita gratuitamente nel testo delle lezioni del prof. Buonaiuti. La relazione tra Dio o il Messia e la luce, e tra Satana e le tenebre, non è, nella concezione paolina, relazione di identità, ma di dominio o principato.

10. Errori dogmatici del Buonaiuti sulla divina rivelazione.

Abbiamo visto sinora, per sommi capi, quale sia il criterio onde il prof. Buonaiuti s'ispira nel dettare le sue lezioni. Esaminiamo ora le dottrine, ivi, più o meno apertamente, professate. A dir vero, pochissimo di buono se ne può raccogliere, laddove l'erroneo e pernicioso vi domina da un capo all'altro.
Rispetto alla natura della rivelazione divina, notiamo quello che dice il Buonaiuti, a pag. 547: «Come è chiaro, l'insegnamento di San Paolo è tutta una rivelazione spirituale che si può comprendere solamente immedesimandoci della sua esperienza». Quale sia il modo per ottenere una siffatta «immedesimazione», egli l'aveva dichiarato sin da principio: per accostarci «vicino all'esaltato misticismo di Paolo» è necessario «uscire dalle vie e valutazioni consuete», e volgerci ad «esplorare e valutare quei documenti nuovi riguardanti le antiche religioni dei misteri, che una luce sì viva son capaci di riverberare sulla dogmatica paolina» (pag. 11). Tale è la rivelazione con le rispettive sue fonti, che il Buonaiuti ammette negli scritti di S. Paolo.
Si confronti adesso questo suo concetto della rivelazione con la dottrina della Chiesa. Secondo il Concilio Vaticano, colui che ci parla nella rivelazione cristiana è Dio stesso, e non per il testimonio delle creature o di qualsiasi altro mezzo di ordine naturale accessibile a tutti mediante l'applicazione delle facoltà naturali, cioè per la sua parola detta virtuale, ma per via soprannaturale, per mezzo di coloro che Egli costituì liberamente come organi di comunicazioni eccezionali che Egli si degnò di fare gratuitamente al genere umano, e sopra ogni legge, diritto o esigenza della natura; con la sua parola formale: «Deus loquens olim Patribus in Prophetis, locutus est nobis in Filio» [4]. Iddio che parlò un tempo ai padri ne' profeti, ha parlato a noi nel Figliuolo (cfr. Hebr. I, 1-2.)» N.d.R.] È vero bensì che la rivelazione di Gesù, come Egli stesso dichiarò, in certi punti oscuri rispetto alla capacità dei suoi discepoli durante la sua predicazione, sarebbe stata compiuta da un rivelatore complementare; però chi fosse questo rivelatore, oltre il medesimo Gesù, ce lo dice S. Paolo. Il rivelatore che a lui ed ai suoi compagni di apostolato scoprì gli arcani dell'evangelo, fu «lo Spirito divino, l'unico che può scrutare le più intime profondità dell'essere e della Sapienza di Dio» [5]. Secondo il Buonaiuti, chi ci parla nella «rivelazione spirituale» di S. Paolo, e per mezzo di lui, è la misteriosofia ellenistica, con i suoi riti, i quali gli apprestarono gli elementi più scelti di quel simbolismo, onde egli adorna la persona, la morte ed il trionfo di Cristo, ed in virtù dei quali la morte ed il trionfo di Cristo contengono per noi una virtù salvatrice (pag. 413, 450).
Secondo la dottrina cattolica, le fonti dell'interpretazione autentica ed altresì scientifica della Bibbia e, per conseguenza, anche di S. Paolo, sono: innanzi tutto, il magistero dottrinale della Chiesa «cui appartiene giudicare del vero senso ed interpretazione delle Sante Scritture» [6]; indi «il consenso dei Padri» [7] ed il «senso ecclesiastico tradizionale». Secondo il Buonaiuti, invece, per comprendere S. Paolo, bisogna allontanarsi dalle «vie e valutazioni consuete», cioè dalle decisioni della Chiesa, dal consenso dei Padri e dal senso tradizionale, e volgersi allo studio della misteriosofia ellenistica, esposta e commentata dagli scrittori eterodossi più esagerati.
Riguardo all'ampiezza, il prof. Buonaiuti sminuisce e riduce la rivelazione sotto due aspetti, diretto ed indiretto. Il diretto concerne il contenuto fondamentale della rivelazione nello stesso simbolo apostolico. Già abbiamo visto come egli distribuisce tra Cristo e S. Paolo la rivelazione cristiana, in modo che, dei dodici articoli, solo due sarebbero insegnamenti di Cristo: il primo «credo in Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra» (senza l'accenno alla Trinità: Dio Padre), ed il settimo «verrà a giudicare» (o regnare). La Chiesa ha insegnato sempre che il simbolo, nel suo contenuto [8], è tutto ed intero rivelazione personale di Gesù e suo immediato insegnamento, conforme dichiara il Concilio Tridentino nel proemio al decreto sul Canone (sess. 4); gli Apostoli sono promulgatori e non creatori, nè in tutto nè in parte, del simbolo.
Sotto l'aspetto indiretto, il Buonaiuti riduce il numero dei libri canonici. Sebbene, a pag. 44, sembri che egli ammetta i ventisette libri del Nuovo Testamento, a pag. 121 accetta le conclusioni della critica, secondo la quale le lettere pastorali «derivano da un nucleo centrale paolino; in seguito abbondantemente sviluppato». Ora in questa ipotesi, sostenuta dalla critica eterodossa seguita dal Buonaiuti, la quale suppone che la gerarchia sia di origine recente e sconosciuta nei tempi apostolici, le lettere pastorali sarebbero, nella quasi totalità del loro contenuto, posteriori a quei tempi, e quindi mancherebbe loro una condizione essenziale per la canonicità, cioè di essere state «consegnate dagli Apostoli alla Chiesa come libri sacri ed ispirati» [9]. Come le lettere pastorali, anche la lettera agli Ebrei non sarebbe canonica, secondo il Buonaiuti, per la medesima ragione che «la critica unanime, si rifiuta di collocarla nell'epoca della vita di S. Paolo» (pag. 118). Lo stesso dicasi di una gran parte del libro degli Atti, per detta del Buonaiuti, «rimaneggiato sul tramonto del primo secolo, utilizzandosi Giuseppe Flavio e adattandosi i discorsi specialmente alla progredita mentalità cristiana» (pag. 111).
Si noti di passaggio la disinvoltura, onde il Buonaiuti parla di critica unanime, cioè della critica protestante e razionalista, come della sola esistente, e non degna neanche d'un solo cenno i critici cattolici!

11. Vecchio errore modernista del Buonaiuti intorno all'assenso della fede.

Secondo la dottrina cattolica, la fede è l'assenso della mente, sotto l'influsso della grazia, alla verità rivelata da Dio [10]. Il credente non pone nulla di suo nell'oggetto rivelato nè nell'atto rivelatore. Egli non fa altro se non riceverli umilmente ed abbracciarli con l'adesione intellettuale sotto l'impero della volontà, poichè l'atto di fede è essenzialmente libero, per[ci]ò senza che il credente vi mescoli da parte sua nessuna cooperazione efficiente nè nella manifestazione della verità rivelata, nè molto meno nella produzione dell'oggetto della rivelazione. Ambedue queste condizioni devono adempirsi non soltanto nella fede di coloro che ricevono la rivelazione, mediante gl'istrumenti di che Dio si serve per promulgarla, ma del pari negli stessi profeti ed apostoli, organi ed interpreti della rivelazione divina. Anche essi ricevono, non creano nè in tutto nè in parte l'oggetto rivelato; essi non fanno se non ascoltarlo e trasmetterlo, potendo dire con Isaia: «quello che ho udito della bocca di Dio annunzio a voi» [11].
Per l'opposto, il prof. Buonaiuti, tutte le volte che parla del possesso dell'oggetto rivelato, spiega questo possesso, in coloro che sono organi della rivelazione, come loro propria «esperienza religiosa», e nei semplici fedeli, come «assimilazione» o «immedesimazione» di tale «esperienza religiosa». Il Buonaiuti, evitando studiosamente la terminologia cattolica tradizionale, dà a quei termini da lui adoperati lo stesso valore e significato che gli danno gli scrittori onde si ispira e che sono gl'inventori e patrocinatori di detti termini, cioè i protestanti ed i modernisti; i quali non ammettono che la fede sia un assenso della mente, ma solo un sentimento, un'impressione insieme ed un'elaborazione propria, la quale non si restringe a ricevere ed abbracciare, ma si estende a produrre l'atto rivelatore ed il proprio oggetto.

12. Il Buonaiuti nega l'infallibilità e l'ispirazione della S. Scrittura.

Il prof. Buonaiuti asserisce che gli Atti degli apostoli e le epistole di S. Paolo, al pari di «tutti i documenti del cristianesimo primitivo», non sono «documenti storici». Propriamente egli nega che siano «puri documenti storici»; ma, con quel che soggiunge dichiara apertamente il senso della parola puri. Questa non significa per lui che gli evangeli, per es., hanno per oggetto, oltre che dare notizia di Gesù, anche istruire ed edificare (cioè non sono solamente storia ma anche insegnamento di Gesù), il che è vero; ma significa che «per i fini particolari di quella propaganda cristiana che sta tanto a cuore ai rispettivi autori», vi si sacrificò o alterò la verità storica, il che è falso [12]. Per il Buonaiuti dunque, al pari degli Evangeli, anche gli Atti degli apostoli e le lettere di S. Paolo non sono «documenti storici» interamente degni di fede, appunto perchè contengono alterazioni della verità, dovute ai «fini particolari dei rispettivi autori». Infatti, come questa circostanza dei «fini particolari» conduce il Buonaiuti ad «usare le più circospette cautele nel ricavare da lui (S. Luca, autore degli Atti) indicazioni storiche» (pag. 107), cioè rende sospetta di falsificazione o almeno di alterazione della verità storica la narrazione degli Atti, così del pari la stessa circostanza dei «fini particolari» alla quale «soggiacciono tutti i documenti del cristianesimo primitivo» renderà ugualmente sospette le narrazioni dei vangeli.
È necessario porre mente alla estrema gravità di queste asserzioni; dalle quali segue che, nella storia della Passione e nel processo di Gesù, in luogo di Gesù vittima e di Giuda traditore, corrispondenti ai fini particolari degli autori, avremo forse da ritenere Giuda, come un patriota e Gesù come un imprudente!...
In conformità di questi principii, il Buonaiuti, d'accordo col Baur, stabilisce che: «la critica dei testi sacri si dovrà fare spingendoci al di là degli ambienti particolari che ce li tramandarono, perchè, come in quelli furono elementi vitali, non potevano sottrarsi ai fenomeni propri della vita di ogni organismo sociale» (pag. 36).
Siffatti principii ed assiomi critici distruggono dalle fondamenta l'infallibilità e l'ispirazione divina della Bibbia. In effetto, se negli scrittori canonici, come in qualsiasi altro, può e deve sospettarsi parzialità tendenziosa, volontaria o involontaria, che metta in dubbio la verità obiettiva del contenuto, è evidente che nella composizione di tali libri non potè intervenire una azione divina che li costituisse parola di Dio; perchè questa non può contenere in sè, nè associarsi errore alcuno, ancorchè proveniente dal cooperatore strumentale umano.
Nel fatto, il Buonaiuti trova ed ammette, di continuo, contraddizioni ed errori d'ogni fatta, ritocchi strani al testo primitivo che ne rimane sfigurato, specialmente in S. Luca, cui egli, come l'eretico Marcione, sembra avere scelto di preferenza per mutilarlo e farne scempio.

NOTE:

[1] Schürer, Gesch. des jüd. Volkes. 1907, pag. 11, 89 seg.
[2] A ciò il Buonaiuti potrebbe osservare, che v'è buon tratto di tempo fra la lettera ai Galati e la lettera ai Romani, durante il quale Paolo avrebbe potuto svolgere le sue concezioni, come vuole fra altri il Sabatier. Rispondiamo che l'epistola ai Galati non potè essere scritta nel 51 da S. Paolo, senza che egli possedesse perfettamente svolto ed ordinato nella mente il sistema intero della giustificazione per il battesimo e per i suoi effetti, come egli lo descrive nei cap. 5-8 dell'epistola ai Romani, sette anni più tardi, nella quale trova il Sabatier (L'Apôtre S. Paul, 1912) il supremo grado di svolgimento nella concezione dell'Apostolo. L'espressione: Χριστῷ συνεσταύρωμαι· ζῶ δὲ οὐκέτι ἐγὼ, ζῇ δὲ ἐν ἐμοὶ Χριστός: «sono crocifisso con Cristo; e vivo non già io, ma colui che vive in me è Cristo», è una formola di meravigliosa concisione, dove compendia l'intero processo giustificativo, svolto in Rom. 5-8. La «concrocifissione con Cristo» che ha per scioglimento l'acquisto di una nuova vita, il cui principio non è già il giustificato, ma Cristo, comprende l'incorporazione con Cristo in croce per seguire la sua stessa sorte, nella morte, sepoltura e risurrezione, ad una vita animata dallo spirito infuso, emanazione di Cristo, il quale come capo la diffonde nelle sue membra, comunicando loro la sua propria vita. E qual è il rito concreto mediante il quale, secondo l'epistola ai Galati, come in quella ai Romani, il fedele si incorpora misticamente con Cristo? È il battesimo (Gal. 3, 27-29), onde sorge l'uomo nuovo (Rom. 6, 6; 7), quella nuova creazione, καινὴ  κτίσις, (Gal. 6, 15) la quale, come creazione o creatura cioè uomo, non è destinata a rimanere inerte, ma a produrre atti vitali; e, come nuova, non può avere qual principio la vecchia concupiscenza, ma la giustizia.
[3] Duhm. Das Buch Jesaia, 1914, pag. XV. Il Duhm passa fra i protestanti come il più valente interprete d'Isaia ai nostri giorni.
[5] I Cor., 2, 10-11.
[6] Conc. Trid. sess. 4. Decr. de edit. et usu libr.
[7] Ibid.
[8] Benchè non come formulario, cioè nella forma in che si recita nel catechismo. Il simbolo è lo schema o compendio della predicazione dommatica di Gesù contenuta nei Vangeli e negli insegnamenti orali di Gesù agli Apostoli: tutto questo complesso è insegnamento personale di Gesù.
[10] Ibid. cap. 3.
[11] Is. 21, 10.
[12] Riportiamo le parole del Buonaiuti: «Noi dobbiamo tener sempre presente il fatto che nè gli uni nè le altre (gli Atti e le lettere paoline) sono dei puri documenti storici: soggiacciono anch'essi, come tutti i documenti del cristianesimo primitivo, ai fini particolari di quella propaganda cristiana, che sta tanto a cuore ai rispettivi autori» pag. 108.

Nessun commento:

Posta un commento

La moderazione dei commenti è attiva.