martedì 22 novembre 2016

LA MORALE DEI GESUITI IN TRIBUNALE

La Civiltà Cattolica

anno 79°, vol. II (quad. 1868, 14 aprile 1928), Roma 1928 pag. 122-134.
«Il fine giustifica i mezzi?» È lecito a chi si propone un nobile intento, far uso di mezzi essenzialmente malvagi per raggiungerlo?, e in tal caso si può ammettere che i mezzi malvagi adoperati, vengano purificati, santificati dal fine al quale sono diretti?
A questo problema la morale utilitaria, in certi casi, e il Machiavelli in ordine alla vita civile, hanno risposto di sì: la morale cristiana, per bocca di tutti i dottori, di tutti i teologi, e, fra questi, anche di tutti i moralisti gesuiti antichi e moderni, dal P. Sa al Vermeersch, ha concordemente risposto sempre di no. Questa affermazione non richiede altre prove, dopo le tante che ne sono state addotte in risposta a coloro che hanno osato affermare il contrario.
Come va dunque che una leggenda, vecchia ormai di secoli, va ripetendo insistentemente che la massima Il fine giustifica i mezzi, appartiene ai gesuiti; che è l'espressione adeguata e sintetica della corrotta morale dei gesuiti? Dove, quando è nata questa leggenda? Il Duhr nel suo noto lavoro, Jesuiten-Fabeln [1] crede che la leggenda sia vecchia quanto è vecchia la Compagnia di Gesù; il Reichmann ne ha trovate tracce fino dai primi decenni del secolo XVII, nelle opere del calvinista Dumoulin; ma chi dette gran credito alla calunnia e concorse, con la celebrità del suo nome, ad accreditarla e a diffonderla in tutto il mondo, fu il Pascal. Egli nelle Provinciales fa sua tale accusa e le dà corpo con grande industria e abilità, rivestendola di forma ed apparenze scientifiche, allegando testi e sentenze che, avulse dal contesto e sottoposte ad una esegesi sottilmente sofistica, presentano una certa apparenza di verità. Dal Pascal ad oggi l'accusa è stata ribattuta e confutata con prove sfolgoranti cento e cento volte; ma... calumniez, calumniez, quelque chose il en resterà toujours. E infatti, a dispetto di tutto, la calunnia è restata, può dirsi, tal quale, se non anche esagerata e ingrandita. Dal seicento ad oggi vi è una ricca bibliografia su l'argomento, la quale in quest'ultimo mezzo secolo si è arricchita abbondantemente. Sono appunto due nuovi pezzi recentissimi, testè aggiuntisi a quella ricca e fiorita letteratura, che ci porgono occasione di quest'articolo.
Ma prima di venire al punto; vogliamo riepilogare qui una succinta storia delle vicende avute dalla famigerata massima, nell'ultimo periodo, quando essa incominciò a cingersi di nuova gloria, non più in libri, giornali e libelli, come nei secoli passati, ma nei fasti più clamorosi delle vicende giudiziarie. Per chi amasse raccogliere notizie più abbondanti, additiamo le opere del P. Roh, dei citati Duhr e Reichmann, e di Georges Goyau nel Dictionnaire Apologétique de la Foi Caiholique.
Questi autori dimostrano che l'infame leggenda specialmente in Germania ebbe fortuna; essa è uno dei capi d'accusa contro i gesuiti e contro la Chiesa cattolica, che arricchisce il bagaglio dell'apologetica spicciola del protestantesimo e del razionalismo contro i cattolici. Il Reichmann ha raccolto un ricchissimo florilegio di passi desunti da scrittori eterodossi, che mostrano la diffusione e l'evoluzione di questo luogo comune, spesso raccolto anche in buona fede da persone peraltro assennate e di buona reputazione scientifica.
È un caso questo che fa meditare, e dimostra come anche la critica non sia quel tocca-sana dei pregiudizi scientifici come qualcuno vorrebbe. Giacchè se vi fu mai un problema che sia stato dibattuto in tutti i sensi, se vi fu mai leggenda che abbia avuto l'onore di essere sottoposta ad un esame oggettivo e maturo, essa è proprio questa di cui ci occupiamo. E con tutto ciò non solo non ha cessato di esistere, ma cento volte smascherata e posta alla gogna, altrettante la vediamo risollevare la testa più insolente e proterva di prima.
Specialmente dopo il 1848 essa rivisse con una nuova efflorescenza. Quello fu un periodo in cui tutti i ferri vecchi delle calunnie accumulate nei secoli passati dai nemici dei gesuiti, vennero forbiti di nuovo e rimessi in circolazione. Il nuovo Pascal, cioè, il Gioberti, se non osa di attribuire ai gesuiti la formula su riferita, così nuda e cruda, nondimeno la sottintende, con grande abilità, l'insinua negli assalti che muove alla pretesa immoralità della casuistica dei gesuiti. L'eco delle polemiche giobertiane varcarono i monti; e i gesuiti i quali dopo la rivoluzione ripresero in Germania i loro ministeri tra il popolo, si trovarono spesso ostacolati da quella stolta accusa, diffusa per mezzo di discorsi e di libelli.
Il celebre P. Roh, zelante e popolare predicatore, cercò di spezzare in mano agli avversari quest'arma insulsa, ma efficace, sfidando dall'alto del pulpito, chiunque volesse, a convalidare di prove l'asserzione. Egli nel 1852, a Francoforte sul Meno, promise 1000 fiorini a chi avesse potuto allegare un solo testo, chiaro ed esplicito, a sentenza dei dottori della facoltà giuridica di Bonn o di Heidelberg, da cui si potesse dimostrare che la massima «il fine giustifica i mezzi», fosse stata sostenuta da un moralista gesuita. Nessuno si fece avanti; ma la diceria continuò a far cammino: sicchè il P. Roh ripetè ancora una volta la sfida dal pulpito di Halle nel 1861.
Trascorse qualche anno ed ecco un pastore protestante di Bergzabern, certo Mauer, dichiarare di sentirsi in grado di rispondere alla sfida, dinanzi ad una facoltà giuridica invocata come giudice. Ma siccome i professori della facoltà acremente ostili ai gesuiti, non vollero ammettere anche giudici di altre facoltà che guarentissero l'imparzialità della sentenza, la sfida non ebbe effetto. Il Mauer pubblicò il frutto delle sue elucubrazioni nell'opuscolo Neuer Jesuitenspiegel (Nuove imposture gesuitiche, Mannheim, 1868), che venne subito confutato dal P. Roh nel suo libro Das alte Lied: Der Zweck heiligt die Mittel (La vecchia canzone: il fine giustifica i mezzi, Friburgo i. Br., 1869).
Questo argomento dal 1869 in poi divenne oggetto di appassionate discussioni in opuscoli e in riviste: il sac. Dasbach, deputato al Landtag prussiano, volle porvi termine, rinnovando la sfida già lanciata dal P. Roh, ed elevando il premio da 1000 a 2000 fiorini al fortunato scopritore della formula famosa in qualche libro di autore gesuita. Questa volta fu proprio un ex-gesuita che rispose, il conte Paolo de Hoensbroech, un infelice apostata, non solo dalla Compagnia, ma dalla Chiesa Cattolica, screditato anche fra i protestanti seri come persona al tutto squilibrata, autore di un libro dal titolo Der Zweck heiligt die Mittel, dato alla luce a Berlino nel 1903. Egli affermava di aver allegato argomenti dimostrativi del suo asserto; e perciò pretendeva di avere diritto ai 2000 fiorini promessi dal Dasbach.
La massima «Il fine giustifica i mezzi» fece allora la prima comparsa dinnanzi al Tribunale civile di Colonia, e quindi alla Corte d'Appello della stessa città. Questa, dice il Goyau, «fece uscire dalla tomba e sfilare davanti alla sua barra, i vecchi casuisti citati come testimoni dal conte di Hoensbroech, e terminò con rigettare la costui domanda». Le vicende di questo famoso processo furono a suo tempo narrate e illustrate in un lungo articolo dalla Civiltà Cattolica [2] al quale rimandiamo il lettore, restringendoci a riportare questo breve tratto della splendida motivazione con cui la Corte volle giustificare la sua sentenza:
«In nessuno dei testi di autori gesuiti, allegati dall'Hoensbroech, si trova enunziato il principio generale che un'azione malvagia in sè possa diventare lecita a motivo del fine buono a cui è diretta. ... Tutti i passi di scritti gesuitici citati dal querelante, riguardano certe azioni particolari; i gesuiti trattano se, sotto certe determinate condizioni, si possono considerare come lecite».
Il Consigliere di Stato, dott. Fischer, ancorchè protestante, non esitò a fare questa esplicita dichiarazione:
«In questo argomento ecco la verità: che la Compagnia di Gesù abbia quale statuto fondamentale segreto la massima «Il fine giustifica i mezzi» non è nè vero nè verosimile, nè mai fu asserito da studiosi serii, neppure di partito avverso: sibbene è fondato unicamente sopra un'opinione priva di valore e originata dalle fonti più volgari della letteratura romanzesca e del ragionamento immaturo, la quale opinione è però diventata una idea fissa» [3].
Questa sentenza emanata da un tribunale laico non sospetto di simpatie gesuitiche, fece colpo; tutta la stampa del tempo se ne occupò, e lo smacco riportato dal conte Hoensbroech rese cauti per un certo tempo i fanatici detrattori dei gesuiti. Se non che il tempo che cancella i lontani ricordi lieti od amari, dopo un ventennio aveva fatto anche dimenticare questo istruttivo «incidente» giudiziario. La dabbenaggine, unita al fanatismo, e alimentata dall'odio ai gesuiti ed alla Chiesa, ha fatto da capo ricercare tra i vecchi ciarpami della propaganda settaria anche la vecchia accusa che sembrava ormai resa inservibile. Ed eccoci ai due casi recenti ai quali abbiamo accennato da principio.
Del primo, che è avvenuto in Norvegia, ci offre una lunga e minuta relazione il R. P. Lutz O. P. nel fascicolo delle Nouvelles Religieuses del febbraio scorso. Egli riferisce che da tre anni l'opinione pubblica norvegese si trova in agitazione a causa di un disegno di legge d'abolizione delle leggi di proscrizione dei gesuiti, che è stato presentato al parlamento nazionale da un gruppo di deputati liberali. Il pericolo di vedere aperte le porte di quella civile nazione ai gesuiti, non poteva non eccitare lo zelo di certuni che si arrogano il diritto di tutori della patria. Fra questi chi si è dato da fare più di ogni altro, è una donna, certa Martha Steinsvik.
Il R. P. Lutz ci tratteggia di questa eroina un poco lusinghiero profilo: «Non è una donna che possa imporsi con una intelligenza ed una cultura tale da aver peso sopra persone assennate: ma siccome è vedova di un personaggio il quale godeva alta autorità per la parte presa nel movimento nazionale che ha portato alla separazione dalla Svezia, così il nome dello Steinsvik comunica anche a lei una gran parte della reputazione che già egli godeva. Ciò è sufficiente per molti a far dimenticare che la sig. Martha Steinsvik è una donna di una fantasia squilibrata, avventurosa e strana, fervente discepola di Rodolfo Steiner, iniziata ai misteri di Iside, con la quale è in relazione non solo nel mondo astrale, ma anche nel mondo fisico».
Ebbene questa nuova furia ha messo sossopra tutta la stampa norvegese con articoli e con comizi contro il pericolo gesuitico. Naturalmente il suo cavallo di battaglia è la «infame» morale dei gesuiti, la quale, a sentire l'ineffabile tutrice della pubblica moralità, renderebbe lecito lo spergiuro, la menzogna, la prostituzione, sarebbe fomite della più profonda degradazione del clero cattolico, e farebbe di questo una massa di impostori, corrotti e corruttori. Innanzi a questo po' po' di roba, la famosa massima «il fine giustifica i mezzi» scompare come una accusa di minore importanza.
Contro siffatto cumulo d'invenzioni insorse il Rev. Riesterers, parroco cattolico di Cristiansand, opponendo alle sfacciate menzogne una seria confutazione, ben altrimenti vibrata e vigorosa. La Steinsvik si è sentita offesa, e ha denunziato il coraggioso sacerdote innanzi al tribunale civile. Quindi un processo in piena regola, durato parecchi giorni, durante i quali presidente e giudici, due esperti nominati dalle due parti, testimoni di accusa e di difesa, hanno dovuto dare il responso, se la morale dei gesuiti, e per conseguente la morale della Chiesa cattolica — giacchè la Steinsvik riconosce che questa e quella sono una cosa sola — sia veramente responsabile di sì enormi iniquità e turpitudini. Non è a dire se tutta la nazione seguisse con ansia lo svolgimento della causa e ne attendesse con impazienza la sentenza.
Il Rev. Riesterers, invitato a giustificarsi (così riferisce il P. Lutz), «parlò da persona che possiede a fondo la teologia morale. Egli con una esposizione che durò per ben tre ore, mise a parallelo le citazioni allegate dalla sig. Steinsvik con i testi autentici di Sant'Alfonso e degli altri autori calunniati dalla donna, facendone vedere il vero concetto e mettendo in chiaro il modo indegno con cui erasi condotta l'accusatrice, o meglio quegli autori donde essa aveva attinto. Concluse con dire che simili assalti, con cui l'accusatrice arrecava una grave offesa alla Chiesa e a tutto il clero cattolico, non si potevano attribuire che a volontaria menzogna; giacchè essa pretendeva di conoscere il latino e di avere diretta conoscenza delle fonti allegate».
I due esperti chiamati a dare il loro ponderato giudizio sulla serietà delle accuse lanciate dalla Steinsvik, furono il dott. Ihlen, protestante, professore alla facoltà teologica di Oslo, e lo stesso R. P. Lutz, a cui dobbiamo l'importante relazione già ricordata. Questi, pure riconoscendo i meriti del dott. Ihlen, lo giudica di una insigne ignoranza in materia di teologia cattolica, da scambiare la «giustizia distributiva» con la «giustizia divina». L'Ihlen quindi concluse la sua relazione in favore della donna. Ma sorto a parlare dopo di lui il R. P. Lutz, con una dotta e serrata esposizione riuscì a distruggere l'effetto che poteva produrre l'autorità dell'avversario sopra giudici incompetenti e acattolici.
«Io incominciai (egli dice) con dichiarare — e con ciò intendevo muovere una indiretta critica al procedimento del mio collega — che secondo il mio modo di vedere il dovere dell'esperto consisteva, non già in esprimere dei giudizi sulla superiorità della morale cattolica o protestante, sibbene in dichiarare se la sig. Steinsvik aveva bene o male interpretati i moralisti cattolici. Quindi per due ore andai dimostrando ove consistevano le varie falsificazioni compiute e le calunnie di questa donna, conchiudendo che la replica del Rev. Riesterer, per quanto acerba, non lo era stata troppo, considerato sopratutto che lo scritto della Steinsvik era tale da dover provocare la più alta indignazione dei cattolici».
La tesi solidamente sostenuta dal Riesterer e dal P. Lutz venne accolta dal tribunale, che, il 18 gennaio scorso, assolse il querelato e condannò la Steinsvik alle spese. Naturalmente tale sentenza ha destato una profonda impressione. Per i cattolici che da due anni gemevano oppressi sotto un'onda di ingiurie e di umiliazioni, inflitte loro dalla implacabile persecuzione di questa donna inframmettente, essa ha portato un grande respiro di sollievo. Nel campo avversario non mancano dei fanatici e dei settari, i quali hanno gridato allo scandalo ed hanno perfino accusato il Presidente di tendenze filo-cattoliche. Ma le persone più eque, più assennate vi hanno corrisposto con il loro plauso. Un giovane pubblicista protestante così conchiudeva un lungo articolo di commento alla sentenza di Kristiansand: «Ancora un conflitto di questo genere tra cattolici e protestanti, ed avremo un moto importante di apostasia nella chiesa luterana ».
Il R. Lutz nel rilevare l'alto significato della sentenza, faceva anche osservare come il magistrato norvegese con tale verdetto pronunziato all'unanimità, ispirandosi ad un sentimento di vivo rispetto verso quella che, in uno dei «considerando», definisce «la più grande Chiesa del mondo», ha non solo reso giustizia alla morale dei gesuiti ch'è quanto dire alla morale cattolica, ma ha dato in pari tempo un notabile riconoscimento ufficiale della sublime dignità di cui si fregia la Chiesa Romana.
Da Kristiansand passiamo a Budapest. Quasi nei medesimi giorni, e quasi nell'identica forma, anche qui si svolgeva un processo alla morale dei gesuiti, per la ripetuta calunniosa attribuzione della massima: «il fine giustifica i mezzi». L'accusa lanciata da un avvocato pubblicista, già deputato del cessato parlamento ungherese, certo Desiderio Polonyi, in un giornale budapestino, è stata raccolta dal dott. mons. Giulio Czapik, professore di teologia e redattore in capo della nota rivista di cultura cattolica Magyar Kultura, tacciando pubblicamente il Polonyi come calunniatore di un istituto religioso che ha diritto al rispetto come ogni altra istituzione che vive nell'ambito della legge. Il Polonyi citò mons. Czapik in giudizio accusandolo a sua volta di calunnia.
Anche a Budapest il Tribunale, riconosciuto il carattere criminale dell'accusa e la propria competenza a trattarne, ha creduto opportuno di costituire uno speciale giurì, formato di persone competenti, scelte conforme alla designazione di ambo le parti, con l'incarico di vagliare i fondamenti dell'accusa infamante sotto il riguardo storico e morale.
Dal Polonyi sono stati designati come esperti certo Ludovico Simonides luterano e il prof. Eugenio Zovangi calvinista, due teologi protestanti, o piuttosto razionalisti e liberi pensatori, già deposti dall'ufficio di predicanti per aver osato impugnare la divinità di Gesù Cristo. Il dott. Antonio Aldassyi, professore di storia medioevale, e il dott. Luigi Wolkenberg, professore di teologia morale, sono stati designati come esperti del Czapik dal rettore dell'Università di Budapest, come persone universalmente stimate per probità e valore scientifico.
La causa, anche perchè l'esame approfondito dell'accusa principale estendeva l'indagine a gran parte delle molte calunnie riversate sulla Compagnia di Gesù, destava un grande interesse. La discussione si aggirava specialmente sui seguenti capi, sui quali il denunziante insisteva in particolare: il dovere, cioè, che i gesuiti avrebbero, secondo la regola 13a degli Esercizi di S. Ignazio, fra le 18, ut cum orthodoxa Ecclesia sentiamus, ed è di essere disposti a credere nero il bianco, in omaggio all'autorità della Chiesa docente; oltre alle altre solite querele circa il probabilismo, la restrictio mentalis, la prassi adottata nelle missioni Cinesi e Malabariche, la soppressione della Compagnia ordinata da Clemente XIV, ecc. Dopo che gli esperti ebbero ampiamente riferito intorno alle loro indagini in cinque lunghe sessioni, il 15 febbraio scorso il tribunale chiudeva il dibattimento durato tre settimane, con l'assoluzione dello Czapik dall'accusa di calunnia per mezzo della stampa e la condanna del dott. Polonyi alla pena di 1000 pengo per le spese del processo, ed altri 100 pengo da pagarsi all'Editore della Magyar Kultura.
I giornali ungheresi che hanno seguito questo straordinario processo col massimo interesse, riferiscono che la sentenza, come fu accolta con viva soddisfazione da tutte le persone oneste, così per gli elementi turbolenti della città è stata una vera doccia fredda. Come anche si rileva da un giornale ebraico, il Pester Lloyd del 16 febbraio, alla lettura della sentenza alcuni satelliti del Polonyi, che erano presenti nell'aula, si abbandonarono ad indecenti gazzarre. Sicchè il Presidente, dopo averli richiamati all'ordine, ordinò la lettura della lunga ed elaborata motivazione sulla quale si fonda il verdetto.
La motivazione del Tribunale stabilisce anzitutto il carattere ingiurioso dell'attribuzione di una massima immorale, qual'è quella che inculca l'uso di mezzi illeciti; passa poi a determinare l'oggetto della causa; quindi a chiarire il metodo tenuto nella dimostrazione dell'assunto.
Sia il procedimento speciale adottato dal Tribunale, sia il carattere e il valore dei personaggi che sono apparsi innanzi a lui in favore o contro la Compagnia di Gesù, davano alla sentenza una importanza non comune; la stampa ungherese si accorda nel dichiarare il verdetto di Budapest un documento storico.
Non dispiacerà al lettore di conoscere nella sua integrità il singolare documento, ancorchè alquanto prolisso:
Il Tribunale doveva dichiarare primieramente la questione, se l'imputazione mossa ad una persona di insegnare o seguire la massima «il fine giustifica i mezzi», possa considerarsi come calunniosa, ed opina che in via di diritto essa si deve ritenere per tale. Infatti tale massima significa che chi la segue non rifugge dal servirsi anche di mezzi illeciti per fini onesti: e, nel caso concreto, afferma che i Gesuiti impiegherebbero senza scrupolo mezzi leciti od illeciti purchè giovino ai loro scopi. L'asserire, quindi, che questa è una massima dei gesuiti, ridonda a disonore ed oltraggio della Compagnia di Gesù, e se la cosa fosse fondata la esporrebbe a pubblico meritato disprezzo.

Che poi tale «specialità gesuitica», per esprimerci con le parole del Polonyi, si trovi formulata come assioma generale, o soltanto in frasi incidentali, che si adottino come un assioma fondamentale, o solo in espressioni incidentali, tutto ciò, quanto al merito della cosa sotto il rispetto giuridico, è perfettamente lo stesso. Una volta stabilito il carattere infamante della citata massima, il Tribunale è in dovere di esaminare se essa realmente viene professata e praticata dai gesuiti: chè se così fosse, l'affermazione non sarebbe una calunnia.

Di comune consenso delle parti la questione doveva essere chiarita a mezzo della dimostrazione dell'asserto: e ciò si è fatto con l'audizione di esperti designati da ambo le parti, sia dal denunziante, sia dal denunziato. Così due avversari come i loro esperti si sono accordati in un solo punto, che cioè la Compagnia non ha mai fissata per iscritto la citata massima così come suona. Del resto i loro punti di vista erano in tutto diametralmente opposti: la difesa sostenendo che tale massima non fu mai ammessa dai gesuiti neppure larvatamente: l'accusa affermando invece di poter provare con allegazioni di teologi gesuiti, che questi hanno insegnato in passato e insegnano tuttora, sia pure in forma indiretta, potersi far uso di mezzi illeciti o dubbi.

Era compito del Tribunale di decidere da qual parte fosse la verità: e la sentenza è riuscita in favore dell'accusato.

Come i due esperti, dott. Luigi Wolkenberg e dott. Antonio Aldassyi così il dott. Czapik, ha mostrato la massima competenza nel rispondere ai quesiti degli avversari, proposti talora anche di sorpresa e a bruciapelo, mostrandosi non inferiore alla dignità che gode e alla sua alta reputazione scientifica. Al contrario non abbiamo riscontrata uguale oggettività e autorità nelle dichiarazioni del denunziante e dei suoi esperti. Eugenio Zowanyi potrà competere nella storia della riforma, ma non nella storia ecclesiastica, col prof. Aldassy, che ha dedicato ad essa dotte investigazioni. Oltre a ciò egli, con le sue enunziazioni ha dimostrato tali prevenzioni sulla Chiesa e sui gesuiti da lasciar dubitare della sua spassionatezza. Ludovico Simonides è un semplice pastore evangelico, non un professore di morale: e sia pure che ciò non abbia una importanza decisiva, potendo essersi dedicato a questi studi: ad ogni modo non potrà mai stare alla pari per dottrina con una illustrazione delle scienze morali qual'è il Prof. Wolkenberg. Anche il dott. Polonyi, quanto alla materia di cui si tratta, non ha la stessa competenza del dott. Czapik.
Dopo tali premesse il Tribunale passa a stabilire le conclusioni alle quali ha addotto l'esame delle prove. Questo tratto costituisce la vera nota caratteristica dello straordinario processo di Budapest. A nessuno sfuggirà l'importanza delle dichiarazioni con cui il Tribunale proclama l'infondatezza di tante calunniose accuse lanciate contro i Gesuiti e dimostra la torbida origine delle accuse stesse dalla animosità e dall'ignoranza.
Affine di determinare gli oggetti dell'accusa sui quali il Tribunale doveva sentenziare è stato convenuto quanto segue. Fra le molte migliaia di libri scritti da migliaia di gesuiti, l'accusa ne ha stabilito soltanto alcuni; ed anche questi — secondo che è risultato nella discussione pubblica e nel confronto fatto in parecchi casi dall'accusato e dai suoi esperti — con allegazione di passi stralciati dal contesto, mutilati, surrettizi con testi ora tradotti male, o superflui allo scopo, non avendo nulla a vedere con l'oggetto in questione.
Così la Difesa ha dimostrato che, quanto all'ubbidienza cieca dei gesuiti l'accusa parlando dell'ubbidienza come cadaveri, ch'essa arreca a loro disdoro, neppure conosceva le Regole dell'Ordine; che l'espressione bianco e nero, va inteso solamente riguardo a questioni dommatiche; ha pure esaurientemente dimostrato che ciò che si dice quanto alle missioni dei gesuiti, non riguarda cose attinenti alla fede, ma è solo questione di metodo, cioè di tener conto nei limiti possibili di consuetudini nazionali degli infedeli; che il probabilismo, la casuistica, la restrictio mentalis non sono affatto particolarità della morale gesuitica, e tanto meno la frode in materie di tasse; che la diversità di sentenze circa i grandi e piccoli furti non ha che vedere con la pretesa massima dei gesuiti; che lo spergiuro, e tanto meno la persecuzione e l'uccisione degli eretici, e il regicidio non si possono dire dottrine proprie dei gesuiti, come non si possono dire dottrine proprie dei luterani e dei calvinisti, solo perchè Calvino e Lutero le hanno insegnate, come l'accusa stessa riconosce. La difesa ha dimostrato, col testo alla mano, che l'accusa non conosceva bene l'atto pontificio con cui venne decretata la soppressione della Compagnia, e che esso non fu emanato nè per dottrine immorali che si attribuissero ai gesuiti, nè perchè la Compagnia si fosse allontanata dal comune sentire della Chiesa; che Francesco Kakoczky II prese partito contrario ai gesuiti per motivi politici; che la maggior parte delle sentenze attribuite ai gesuiti come loro dottrine particolari erano già insegnate da molti dotti prima di essi, ed al presente altresì sono tenute da altri autori anche secolari, e perfino acattolici. L'esperto della difesa non ha esitato di riconoscere che non mancano anche fra i gesuiti degli individui i quali siano caduti in eccessi ed errori, ma ha soggiunto, com'è ragionevole, non essere giusto di addebitare a tutto l'Ordine come tale i falli dei singoli suoi membri.
Ora, l'accusa ha il grave torto di allegare dei testi mutili desunti tra centinaia di scrittori della Compagnia, non facendo distinzione tra i singoli individui e l'Ordine intero, generalizzando con una evidente ingiustizia; di non tener conto del modo di opinare delle varie epoche, potendo una data sentenza venir considerata come buona in un secolo e rigettata in un altro; di non tener conto che molti anche tra i dotti protestanti ritengono come una calunniosa ed assurda invenzione quella massima ascritta ai gesuiti; e che la Compagnia è una istituzione riconosciuta dalla Chiesa e dallo Stato, il che non sarebbe certamente, qualora essa tenesse dottrine, opinioni o massime contrarie alla sana morale, alla pace sociale e all'ordine pubblico. Ed è inconcepibile come l'accusa, non tenendo conto di tali circostanze, con una accozzaglia di testi mutili, staccati, mal tradotti, surrettizi, o mal compresi, abbia osato formulare e mettere in pubblico un materiale di prova, senz'ombra di scrupolo, senza alcuna critica, senza chiedersi neppure se le accuse facciano o no al caso, o se siano vere ed inoppugnabili. Tal modo di procedere è riprovevole: esso non ha altro scopo che di lanciare delle accuse infondate contro la Compagnia di Gesù.
Perciò il Tribunale si crede in dovere di dichiarare che le accuse, dinanzi alle prove, sono risultate non corrispondenti a verità; che la sopracitata massima non è dottrina dei gesuiti; che l'accusa mossa alla Compagnia è una calunnia, e chi se ne fa reo è un calunniatore. Avendo il denunziante calunniato, l'accusato aveva tutto il diritto di chiamarlo calunniatore. Tanto più, perchè è sentimento della Corte che la propalazione anche di accuse certe può riuscire una calunnia, qualora avvenga con intenzione di offendere: ed è fuor di dubbio che il dott. Polonyi aveva intenzione di oltraggiare ed offendere la Compagnia.
È chiaro adunque che l'esame delle prove riesce favorevole all'accusato; egli dunque dev'essere assolto.
* * *
I due episodi giudiziari di Kristiansand e di Budapest dei quali abbiamo voluto dar conto ai lettori, darebbero luogo a molte riflessioni. Essi sono una prova che l'odio settario, l'acciecamento anticattolico non disarma, e volendo sfogare il suo livore contro la vera Chiesa di Gesù Cristo, addenta rabbiosamente quella Compagnia di Gesù che da secoli è divenuto il bersaglio sul quale si vanno ad infrangere i primi dardi.
Questa loro animosità, questa preferenza non ci offende; anzi è un titolo del nostro vanto. Questa perfidia non ci spaventa. Sappiamo dove e a chi essa mira veramente e ci conforta che portae inferi non praevalebunt.
Ma più penose considerazioni ci suscita il riflettere all'angustia intellettuale, all'infantile miseria di questa celebrata cultura che va tanto tronfia e superba di sè. Dopo secoli di polemiche compiute con serietà scientifica e con severa investigazione da studiosi coscienziosi e oggettivi, sopra un argomento diventato ormai tanto trito, noi vediamo non già persone incolte e volgari, ma uomini che si fregiano di alti titoli scientifici e godono di una tal quale reputazione, dare mostra di una ignoranza veramente supina.
Varranno i due recenti processi a mettere fine, una buona volta, al dilagare di tanta melma di odio e di calunnie che scende nei vortici dei secoli? Al tempo del processo di Colonia la nostra rivista si poneva lo stesso quesito. «Dopo un processo sì pubblico e una sentenza sì chiara e perentoria di assoluzione, — si domandava — si continuerà ancora a calunniare i gesuiti, tacciandoli di dottrine perverse e di delitti abbominevoli, sempre col solito ritornello del fine che giustifica i mezzi?». La rivista rispondeva: «non vi ha dubbio che, a dispetto di queste domande... la guerra ai gesuiti continuerà come prima, anzi si farà più accanita e popolare». Cambiano i tempi, cambiano gli strumenti micidiali di guerra, ma l'odio antico non cessa, anzi diviene tuttodì più acuto e furibondo.
Basta levare il capo e scrutare, intorno nell'orizzonte, i segni precorritori di tempesta, per essere ammoniti che i verdetti assolutorii pronunziati dai tre tribunali, ove sedevano giudici non sospetti di gesuitismo, non indurranno mai a rendere omaggio alla verità solennemente proclamata, chi non la verità vuole, ma le tenebre; non l'unione dei cuori, ma l'odio fraterno; non il vero avanzamento del genere umano, ma il trionfo de' propri interessi e delle proprie passioni, che sono capaci di giustificare qualunque mezzo, anche la calunnia.

NOTE:

[1] I gesuiti — Favole e leggende. Traduzione italiana di Gaetano Bruscoli. Firenze 1908. Roma, «Civiltà Cattolica» (due vol. in-8° gr.) Prezzo L. 10.
[3] L. c. pag. 16.

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