LA MORALE DEI GESUITI IN TRIBUNALE
La Civiltà Cattolica
anno 79°, vol. II (quad. 1868, 14 aprile 1928), Roma 1928 pag. 122-134.
«Il fine giustifica i mezzi?» È lecito a chi si
propone un nobile intento, far uso di mezzi essenzialmente malvagi per
raggiungerlo?, e in tal caso si può ammettere che i mezzi malvagi
adoperati, vengano purificati, santificati dal fine al quale sono
diretti?
A questo problema la morale utilitaria, in certi casi, e il
Machiavelli in ordine alla vita civile, hanno risposto di sì:
la morale cristiana, per bocca di tutti i dottori, di tutti i teologi,
e, fra questi, anche di tutti i moralisti gesuiti antichi e moderni,
dal P. Sa al Vermeersch, ha concordemente risposto sempre di no.
Questa affermazione non richiede altre prove, dopo le tante che ne
sono state addotte in risposta a coloro che hanno osato affermare il
contrario.
Come va dunque che una leggenda, vecchia ormai di secoli, va
ripetendo insistentemente che la massima Il
fine giustifica i mezzi, appartiene ai gesuiti; che è
l'espressione adeguata e sintetica della corrotta morale dei gesuiti?
Dove, quando è nata questa leggenda? Il Duhr nel suo noto lavoro,
Jesuiten-Fabeln [1] crede che la leggenda sia vecchia quanto è
vecchia la Compagnia di Gesù; il Reichmann ne ha trovate tracce
fino dai primi decenni del secolo XVII, nelle opere del calvinista
Dumoulin; ma chi dette gran
credito alla calunnia e concorse, con la celebrità del suo
nome, ad accreditarla e a diffonderla in tutto il mondo, fu il
Pascal. Egli nelle Provinciales
fa sua tale accusa e le dà corpo con grande industria e
abilità, rivestendola di forma ed apparenze scientifiche,
allegando testi e sentenze che, avulse dal contesto e sottoposte ad
una esegesi sottilmente sofistica, presentano una certa apparenza di
verità. Dal Pascal ad oggi l'accusa è stata ribattuta e
confutata con prove sfolgoranti cento e cento volte; ma... calumniez,
calumniez, quelque chose il en resterà toujours. E
infatti, a dispetto di tutto, la calunnia è restata, può
dirsi, tal quale, se non anche esagerata e ingrandita. Dal seicento
ad oggi vi è una ricca bibliografia su l'argomento, la quale in
quest'ultimo mezzo secolo si è arricchita abbondantemente. Sono
appunto due nuovi pezzi recentissimi, testè aggiuntisi a quella
ricca e fiorita letteratura, che ci porgono occasione di
quest'articolo.
Ma prima di venire al punto; vogliamo riepilogare qui una succinta
storia delle vicende avute dalla famigerata massima, nell'ultimo
periodo, quando essa incominciò a cingersi di nuova gloria, non
più in libri, giornali e libelli, come nei secoli passati, ma nei
fasti più clamorosi delle vicende giudiziarie. Per chi amasse
raccogliere notizie più abbondanti, additiamo le opere del P.
Roh, dei citati Duhr e Reichmann, e di Georges Goyau nel Dictionnaire
Apologétique de la Foi Caiholique.
Questi autori dimostrano che l'infame leggenda specialmente in
Germania ebbe fortuna; essa è uno dei capi d'accusa contro i
gesuiti e contro la Chiesa cattolica, che arricchisce il bagaglio
dell'apologetica spicciola del protestantesimo e del razionalismo
contro i cattolici. Il Reichmann ha raccolto un ricchissimo florilegio
di passi desunti da scrittori eterodossi, che mostrano la diffusione e
l'evoluzione di questo luogo comune, spesso raccolto anche in buona
fede da persone peraltro assennate e di buona reputazione scientifica.
È un caso questo che fa meditare, e dimostra come anche la
critica non sia quel tocca-sana dei pregiudizi scientifici come
qualcuno vorrebbe. Giacchè se vi fu mai un problema che sia stato
dibattuto in tutti i sensi, se vi fu mai leggenda che abbia avuto
l'onore di essere sottoposta ad un esame oggettivo e maturo, essa
è proprio questa di cui ci occupiamo. E con tutto ciò non
solo non ha cessato di esistere, ma cento volte smascherata e posta
alla gogna, altrettante la vediamo risollevare la testa più
insolente e proterva di prima.
Specialmente dopo il 1848 essa rivisse con una nuova efflorescenza.
Quello fu un periodo in cui tutti i ferri vecchi delle calunnie
accumulate nei secoli passati dai nemici dei gesuiti, vennero forbiti
di nuovo e rimessi in circolazione. Il
nuovo Pascal, cioè, il Gioberti, se non osa di attribuire ai
gesuiti la formula su riferita, così nuda e cruda, nondimeno la
sottintende, con grande abilità, l'insinua negli assalti che
muove alla pretesa immoralità della casuistica dei gesuiti.
L'eco delle polemiche giobertiane varcarono i monti; e i gesuiti i
quali dopo la rivoluzione ripresero in Germania i loro ministeri tra
il popolo, si trovarono spesso ostacolati da quella stolta accusa,
diffusa per mezzo di discorsi e di libelli.
Il celebre P. Roh, zelante e popolare predicatore, cercò di
spezzare in mano agli avversari quest'arma insulsa, ma efficace,
sfidando dall'alto del pulpito, chiunque volesse, a convalidare di
prove l'asserzione. Egli nel 1852, a Francoforte sul Meno, promise
1000 fiorini a chi avesse potuto allegare un solo testo, chiaro ed
esplicito, a sentenza dei dottori della facoltà giuridica di Bonn
o di Heidelberg, da cui si potesse dimostrare che la massima «il
fine giustifica i mezzi», fosse stata sostenuta da un moralista
gesuita. Nessuno si fece avanti; ma la diceria continuò a far
cammino: sicchè il P. Roh ripetè ancora una volta la sfida
dal pulpito di Halle nel 1861.
Trascorse qualche anno ed ecco un pastore protestante di Bergzabern,
certo Mauer, dichiarare di sentirsi in grado di rispondere alla sfida,
dinanzi ad una facoltà giuridica invocata come giudice. Ma
siccome i professori della facoltà acremente ostili ai gesuiti,
non vollero ammettere anche giudici di altre facoltà che
guarentissero l'imparzialità della sentenza, la sfida non ebbe
effetto. Il Mauer pubblicò il frutto delle sue elucubrazioni
nell'opuscolo Neuer
Jesuitenspiegel (Nuove imposture gesuitiche, Mannheim, 1868),
che venne subito confutato dal P. Roh nel suo libro
Das alte Lied: Der Zweck heiligt die Mittel (La vecchia
canzone: il fine giustifica i mezzi, Friburgo i. Br., 1869).
Questo argomento dal 1869 in poi divenne oggetto di appassionate
discussioni in opuscoli e in riviste: il sac. Dasbach, deputato al
Landtag prussiano, volle porvi termine, rinnovando la sfida già
lanciata dal P. Roh, ed elevando il premio da 1000 a 2000 fiorini al
fortunato scopritore della formula famosa in qualche libro di autore
gesuita. Questa volta fu proprio un ex-gesuita che rispose, il conte
Paolo de Hoensbroech, un infelice apostata, non solo dalla Compagnia,
ma dalla Chiesa Cattolica, screditato anche fra i protestanti seri
come persona al tutto squilibrata, autore di un libro dal titolo Der Zweck heiligt die Mittel,
dato alla luce a Berlino nel 1903. Egli affermava di aver allegato
argomenti dimostrativi del suo asserto; e perciò pretendeva di
avere diritto ai 2000 fiorini promessi dal Dasbach.
La massima «Il fine giustifica i mezzi» fece allora la
prima comparsa dinnanzi al Tribunale civile di Colonia, e quindi alla
Corte d'Appello della stessa città. Questa, dice il Goyau,
«fece uscire dalla tomba e sfilare davanti alla sua barra, i
vecchi casuisti citati come testimoni dal conte di Hoensbroech, e
terminò con rigettare la costui domanda». Le vicende di
questo famoso processo furono a suo tempo narrate e illustrate in un
lungo articolo
dalla Civiltà Cattolica [2]
al quale rimandiamo il lettore, restringendoci a riportare questo
breve tratto della splendida motivazione con cui la Corte volle
giustificare la sua sentenza:
«In nessuno dei testi di autori gesuiti, allegati
dall'Hoensbroech, si trova enunziato il principio generale che
un'azione malvagia in sè possa diventare lecita a motivo del fine
buono a cui è diretta. ... Tutti i passi di scritti gesuitici
citati dal querelante, riguardano certe azioni particolari; i gesuiti
trattano se, sotto certe determinate condizioni, si possono
considerare come lecite».
Il Consigliere di Stato, dott. Fischer, ancorchè protestante,
non esitò a fare questa esplicita dichiarazione:
«In questo argomento ecco la verità: che la Compagnia di
Gesù abbia quale statuto fondamentale segreto la massima «Il
fine giustifica i mezzi» non è nè vero nè
verosimile, nè mai fu asserito da studiosi serii, neppure di
partito avverso: sibbene è fondato unicamente sopra un'opinione
priva di valore e originata dalle fonti più volgari della
letteratura romanzesca e del ragionamento immaturo, la quale opinione
è però diventata una idea fissa» [3].
Questa sentenza emanata da un tribunale laico non sospetto di
simpatie gesuitiche, fece colpo; tutta la stampa del tempo se ne
occupò, e lo smacco riportato dal conte Hoensbroech rese cauti
per un certo tempo i fanatici detrattori dei gesuiti. Se non che il
tempo che cancella i lontani ricordi lieti od amari, dopo un ventennio
aveva fatto anche dimenticare questo istruttivo «incidente»
giudiziario. La dabbenaggine, unita al fanatismo, e alimentata
dall'odio ai gesuiti ed alla Chiesa, ha fatto da capo ricercare tra i
vecchi ciarpami della propaganda settaria anche la vecchia accusa che
sembrava ormai resa inservibile. Ed eccoci ai due casi recenti ai
quali abbiamo accennato da principio.
Del primo, che è avvenuto in Norvegia, ci offre una lunga e
minuta relazione il R. P. Lutz O. P. nel fascicolo delle Nouvelles
Religieuses del febbraio scorso. Egli riferisce che da tre
anni l'opinione pubblica norvegese si trova in agitazione a causa di
un disegno di legge d'abolizione delle leggi di proscrizione dei
gesuiti, che è stato presentato al parlamento nazionale da un
gruppo di deputati liberali. Il pericolo di vedere aperte le porte di
quella civile nazione ai gesuiti, non poteva non eccitare lo zelo di
certuni che si arrogano il diritto di tutori della patria. Fra questi
chi si è dato da fare più di ogni altro, è una donna,
certa Martha Steinsvik.
Il R. P. Lutz ci tratteggia di questa eroina un poco lusinghiero
profilo: «Non è una donna che possa imporsi con una
intelligenza ed una cultura tale da aver peso sopra persone assennate:
ma siccome è vedova di un personaggio il quale godeva alta
autorità per la parte presa nel movimento nazionale che ha
portato alla separazione dalla Svezia, così il nome dello
Steinsvik comunica anche a lei una gran parte della reputazione che
già egli godeva. Ciò è sufficiente per molti a far
dimenticare che la sig. Martha Steinsvik è una donna di una
fantasia squilibrata, avventurosa e strana, fervente
discepola di Rodolfo Steiner, iniziata ai misteri di Iside,
con la quale è in relazione non solo nel mondo astrale, ma anche
nel mondo fisico».
Ebbene questa nuova furia ha messo sossopra tutta la stampa norvegese
con articoli e con comizi contro il pericolo gesuitico. Naturalmente
il suo cavallo di battaglia è la «infame» morale dei
gesuiti, la quale, a sentire l'ineffabile tutrice della pubblica
moralità, renderebbe lecito lo spergiuro, la menzogna, la
prostituzione, sarebbe fomite della più profonda degradazione del
clero cattolico, e farebbe di questo una massa di impostori, corrotti
e corruttori. Innanzi a questo po' po' di roba, la famosa massima
«il fine giustifica i mezzi» scompare come una accusa di
minore importanza.
Contro siffatto cumulo d'invenzioni insorse il Rev. Riesterers,
parroco cattolico di Cristiansand, opponendo alle sfacciate menzogne
una seria confutazione, ben altrimenti vibrata e vigorosa. La
Steinsvik si è sentita offesa, e ha denunziato il coraggioso
sacerdote innanzi al tribunale civile. Quindi un processo in piena
regola, durato parecchi giorni, durante i quali presidente e giudici,
due esperti nominati dalle due parti, testimoni di accusa e di difesa,
hanno dovuto dare il responso, se la morale dei gesuiti, e per
conseguente la morale della Chiesa cattolica — giacchè la
Steinsvik riconosce che questa e quella sono una cosa sola — sia
veramente responsabile di sì enormi iniquità e turpitudini.
Non è a dire se tutta la nazione seguisse con ansia lo
svolgimento della causa e ne attendesse con impazienza la sentenza.
Il Rev. Riesterers, invitato a giustificarsi (così riferisce il
P. Lutz), «parlò da persona che possiede a fondo la teologia
morale. Egli con una esposizione che durò per ben tre ore, mise a
parallelo le citazioni allegate dalla sig. Steinsvik con i testi
autentici di Sant'Alfonso e degli altri autori calunniati dalla donna,
facendone vedere il vero concetto e mettendo in chiaro il modo indegno
con cui erasi condotta l'accusatrice, o meglio quegli autori donde
essa aveva attinto. Concluse con dire che simili
assalti, con cui l'accusatrice arrecava una grave offesa alla Chiesa
e a tutto il clero cattolico, non si potevano attribuire che
a volontaria menzogna; giacchè essa pretendeva di conoscere il
latino e di avere diretta conoscenza delle fonti allegate».
I due esperti chiamati a dare il loro ponderato giudizio sulla
serietà delle accuse lanciate dalla Steinsvik, furono il dott.
Ihlen, protestante, professore alla facoltà teologica di Oslo, e
lo stesso R. P. Lutz, a cui dobbiamo l'importante relazione già
ricordata. Questi, pure riconoscendo i meriti del dott. Ihlen, lo
giudica di una insigne ignoranza in materia di teologia cattolica, da
scambiare la «giustizia distributiva» con la «giustizia
divina». L'Ihlen quindi concluse la sua relazione in favore della
donna. Ma sorto a parlare dopo di lui il R. P. Lutz, con una dotta e
serrata esposizione riuscì a distruggere l'effetto che poteva
produrre l'autorità dell'avversario sopra giudici incompetenti e
acattolici.
«Io incominciai (egli dice) con dichiarare — e con
ciò intendevo muovere una indiretta critica al procedimento del
mio collega — che secondo il mio modo di vedere il dovere
dell'esperto consisteva, non già in esprimere dei giudizi sulla
superiorità della morale cattolica o protestante, sibbene in
dichiarare se la sig. Steinsvik aveva bene o male interpretati i
moralisti cattolici. Quindi per due ore andai dimostrando ove
consistevano le varie falsificazioni compiute e le calunnie di questa
donna, conchiudendo che la replica del Rev. Riesterer, per quanto
acerba, non lo era stata troppo, considerato sopratutto che lo scritto
della Steinsvik era tale da dover provocare la più alta
indignazione dei cattolici».
La tesi solidamente sostenuta dal Riesterer e dal P. Lutz venne
accolta dal tribunale, che, il 18 gennaio scorso, assolse il querelato
e condannò la Steinsvik alle spese. Naturalmente tale sentenza ha
destato una profonda impressione. Per i cattolici che da due anni
gemevano oppressi sotto un'onda di ingiurie e di umiliazioni, inflitte
loro dalla implacabile persecuzione di questa donna inframmettente,
essa ha portato un grande respiro di sollievo. Nel campo avversario
non mancano dei fanatici e dei settari, i quali hanno gridato allo
scandalo ed hanno perfino accusato il Presidente di tendenze
filo-cattoliche. Ma le persone più eque, più assennate vi
hanno corrisposto con il loro plauso. Un giovane pubblicista
protestante così conchiudeva un lungo articolo di commento alla
sentenza di Kristiansand: «Ancora un conflitto di questo genere
tra cattolici e protestanti, ed avremo un moto importante di apostasia
nella chiesa luterana ».
Il R. Lutz nel rilevare l'alto significato della sentenza, faceva
anche osservare come il magistrato norvegese con tale verdetto
pronunziato all'unanimità, ispirandosi ad un sentimento di vivo
rispetto verso quella che, in uno dei «considerando»,
definisce «la più grande Chiesa del mondo», ha non solo
reso giustizia alla morale dei gesuiti ch'è quanto dire alla
morale cattolica, ma ha dato in pari tempo un notabile riconoscimento
ufficiale della sublime dignità di cui si fregia la Chiesa
Romana.
Da Kristiansand passiamo a Budapest. Quasi nei medesimi giorni, e
quasi nell'identica forma, anche qui si svolgeva un processo alla
morale dei gesuiti, per la ripetuta calunniosa attribuzione della
massima: «il fine giustifica i mezzi». L'accusa lanciata da
un avvocato pubblicista, già deputato del cessato parlamento
ungherese, certo Desiderio Polonyi, in un giornale budapestino, è
stata raccolta dal dott. mons. Giulio Czapik, professore di teologia e
redattore in capo della nota rivista di cultura cattolica Magyar
Kultura, tacciando pubblicamente il Polonyi come calunniatore
di un istituto religioso che ha diritto al rispetto come ogni altra
istituzione che vive nell'ambito della legge. Il Polonyi citò
mons. Czapik in giudizio accusandolo a sua volta di calunnia.
Anche a Budapest il Tribunale, riconosciuto il carattere criminale
dell'accusa e la propria competenza a trattarne, ha creduto opportuno
di costituire uno speciale giurì,
formato di persone competenti, scelte conforme alla designazione di
ambo le parti, con l'incarico di vagliare i fondamenti dell'accusa
infamante sotto il riguardo storico e morale.
Dal Polonyi sono stati designati come esperti certo Ludovico
Simonides luterano e il prof. Eugenio Zovangi calvinista, due teologi
protestanti, o piuttosto razionalisti e liberi pensatori, già
deposti dall'ufficio di predicanti per aver osato impugnare la
divinità di Gesù Cristo. Il dott. Antonio Aldassyi,
professore di storia medioevale, e il dott. Luigi Wolkenberg,
professore di teologia morale, sono stati designati come esperti del
Czapik dal rettore dell'Università di Budapest, come persone
universalmente stimate per probità e valore scientifico.
La causa, anche perchè l'esame approfondito dell'accusa
principale estendeva l'indagine a gran parte delle molte calunnie
riversate sulla Compagnia di Gesù, destava un grande interesse.
La discussione si aggirava specialmente sui seguenti capi, sui quali
il denunziante insisteva in particolare: il dovere, cioè, che i
gesuiti avrebbero, secondo la regola 13a
degli Esercizi di S. Ignazio, fra le 18, ut cum orthodoxa Ecclesia
sentiamus, ed è di essere disposti a credere nero il bianco, in
omaggio all'autorità della Chiesa docente; oltre alle altre
solite querele circa il probabilismo, la restrictio
mentalis, la prassi adottata nelle missioni Cinesi e
Malabariche, la soppressione della Compagnia ordinata da Clemente XIV,
ecc. Dopo che gli esperti ebbero ampiamente riferito intorno alle loro
indagini in cinque lunghe sessioni, il 15 febbraio scorso il tribunale
chiudeva il dibattimento durato tre settimane, con l'assoluzione dello
Czapik dall'accusa di calunnia per mezzo della stampa e la condanna
del dott. Polonyi alla pena di 1000 pengo
per le spese del processo, ed altri 100 pengo da pagarsi
all'Editore della Magyar Kultura.
I giornali ungheresi che hanno seguito questo straordinario processo
col massimo interesse, riferiscono che la sentenza, come fu accolta
con viva soddisfazione da tutte le persone oneste, così per gli
elementi turbolenti della città è stata una vera doccia
fredda. Come anche si rileva da un giornale ebraico, il Pester
Lloyd del 16 febbraio, alla lettura della sentenza alcuni
satelliti del Polonyi, che erano presenti nell'aula, si abbandonarono
ad indecenti gazzarre. Sicchè il Presidente, dopo averli
richiamati all'ordine, ordinò la lettura della lunga ed elaborata
motivazione sulla quale si fonda il verdetto.
La motivazione del Tribunale stabilisce anzitutto il carattere
ingiurioso dell'attribuzione di una massima immorale, qual'è
quella che inculca l'uso di mezzi illeciti; passa poi a determinare
l'oggetto della causa; quindi a chiarire il metodo tenuto nella
dimostrazione dell'assunto.
Sia il procedimento speciale adottato dal Tribunale, sia il carattere
e il valore dei personaggi che sono apparsi innanzi a lui in favore o
contro la Compagnia di Gesù, davano alla sentenza una importanza
non comune; la stampa ungherese si accorda nel dichiarare il verdetto
di Budapest un documento storico.
Non dispiacerà al lettore di conoscere nella sua integrità
il singolare documento, ancorchè alquanto prolisso:
Il Tribunale doveva dichiarare primieramente la questione, se
l'imputazione mossa ad una persona di insegnare o seguire la massima
«il fine giustifica i mezzi», possa considerarsi come
calunniosa, ed opina che in via di diritto essa si deve ritenere per
tale. Infatti tale massima significa che chi la segue non rifugge
dal servirsi anche di mezzi illeciti per fini onesti: e, nel caso
concreto, afferma che i Gesuiti impiegherebbero senza scrupolo mezzi
leciti od illeciti purchè giovino ai loro scopi. L'asserire,
quindi, che questa è una massima dei gesuiti, ridonda a
disonore ed oltraggio della Compagnia di Gesù, e se la cosa
fosse fondata la esporrebbe a pubblico meritato disprezzo.
Che poi tale «specialità gesuitica», per
esprimerci con le parole del Polonyi, si trovi formulata come
assioma generale, o soltanto in frasi incidentali, che si adottino
come un assioma fondamentale, o solo in espressioni incidentali,
tutto ciò, quanto al merito della cosa sotto il rispetto
giuridico, è perfettamente lo stesso. Una volta stabilito il
carattere infamante della citata massima, il Tribunale è in
dovere di esaminare se essa realmente viene professata e praticata
dai gesuiti: chè se così fosse, l'affermazione non sarebbe
una calunnia.
Di comune consenso delle parti la questione doveva essere
chiarita a mezzo della dimostrazione dell'asserto: e ciò si
è fatto con l'audizione di esperti designati da ambo le parti,
sia dal denunziante, sia dal denunziato. Così due avversari
come i loro esperti si sono accordati in un solo punto, che
cioè la Compagnia non ha mai fissata per iscritto la citata
massima così come suona. Del resto i loro punti di vista erano
in tutto diametralmente opposti: la difesa sostenendo che tale
massima non fu mai ammessa dai gesuiti neppure larvatamente:
l'accusa affermando invece di poter provare con allegazioni di
teologi gesuiti, che questi hanno insegnato in passato e insegnano
tuttora, sia pure in forma indiretta, potersi far uso di mezzi
illeciti o dubbi.
Era compito del Tribunale di decidere da qual parte fosse la
verità: e la sentenza è riuscita in favore dell'accusato.
Come i due esperti, dott. Luigi Wolkenberg e dott. Antonio
Aldassyi così il dott. Czapik, ha mostrato la massima
competenza nel rispondere ai quesiti degli avversari, proposti
talora anche di sorpresa e a bruciapelo, mostrandosi non inferiore
alla dignità che gode e alla sua alta reputazione scientifica.
Al contrario non abbiamo riscontrata uguale oggettività e
autorità nelle dichiarazioni del denunziante e dei suoi
esperti. Eugenio Zowanyi potrà competere nella storia della
riforma, ma non nella storia ecclesiastica, col prof. Aldassy, che
ha dedicato ad essa dotte investigazioni. Oltre a ciò egli, con
le sue enunziazioni ha dimostrato tali prevenzioni sulla Chiesa e
sui gesuiti da lasciar dubitare della sua spassionatezza. Ludovico
Simonides è un semplice pastore evangelico, non un professore
di morale: e sia pure che ciò non abbia una importanza
decisiva, potendo essersi dedicato a questi studi: ad ogni modo non
potrà mai stare alla pari per dottrina con una illustrazione
delle scienze morali qual'è il Prof. Wolkenberg. Anche il dott.
Polonyi, quanto alla materia di cui si tratta, non ha la stessa
competenza del dott. Czapik.
Dopo tali premesse il Tribunale passa a stabilire le conclusioni alle
quali ha addotto l'esame delle prove. Questo tratto costituisce la
vera nota caratteristica dello straordinario processo di Budapest. A
nessuno sfuggirà l'importanza delle dichiarazioni con cui il
Tribunale proclama l'infondatezza di tante calunniose accuse lanciate
contro i Gesuiti e dimostra la torbida origine delle accuse stesse
dalla animosità e dall'ignoranza.
Affine di determinare gli oggetti dell'accusa sui quali il
Tribunale doveva sentenziare è stato convenuto quanto segue.
Fra le molte migliaia di libri scritti da migliaia di gesuiti,
l'accusa ne ha stabilito soltanto alcuni; ed anche questi —
secondo che è risultato nella discussione pubblica e nel
confronto fatto in parecchi casi dall'accusato e dai suoi esperti
— con allegazione di passi stralciati dal contesto, mutilati,
surrettizi con testi ora tradotti male, o superflui allo scopo, non
avendo nulla a vedere con l'oggetto in questione.
Così la Difesa ha dimostrato che, quanto all'ubbidienza
cieca dei gesuiti l'accusa parlando dell'ubbidienza come cadaveri,
ch'essa arreca a loro disdoro, neppure conosceva le Regole
dell'Ordine; che l'espressione bianco
e nero, va
inteso solamente riguardo a questioni dommatiche; ha pure
esaurientemente dimostrato che ciò che si dice quanto alle
missioni dei gesuiti, non riguarda cose attinenti alla fede, ma
è solo questione di metodo, cioè di tener conto nei limiti
possibili di consuetudini nazionali degli infedeli; che il
probabilismo, la casuistica, la restrictio
mentalis non sono affatto particolarità della morale
gesuitica, e tanto meno la frode in materie di tasse; che la
diversità di sentenze circa i grandi e piccoli furti non ha che
vedere con la pretesa massima dei gesuiti; che lo spergiuro, e tanto
meno la persecuzione e l'uccisione degli eretici, e il regicidio non
si possono dire dottrine proprie dei gesuiti, come non si possono
dire dottrine proprie dei luterani e dei calvinisti, solo
perchè Calvino e Lutero le hanno insegnate, come l'accusa
stessa riconosce. La difesa ha dimostrato, col testo alla mano, che
l'accusa non conosceva bene l'atto
pontificio con cui venne decretata la soppressione della
Compagnia, e che esso non fu emanato nè per dottrine immorali
che si attribuissero ai gesuiti, nè perchè la Compagnia
si fosse allontanata dal comune sentire della Chiesa; che
Francesco Kakoczky II prese partito contrario ai gesuiti per motivi
politici; che la maggior parte delle sentenze attribuite ai gesuiti
come loro dottrine particolari erano già insegnate da molti
dotti prima di essi, ed al presente altresì sono tenute da
altri autori anche secolari, e perfino acattolici. L'esperto della
difesa non ha esitato di riconoscere che non mancano anche fra i
gesuiti degli individui i quali siano caduti in eccessi ed errori,
ma ha soggiunto, com'è ragionevole, non essere giusto di
addebitare a tutto l'Ordine come tale i falli dei singoli suoi
membri.
Ora, l'accusa ha il grave torto di allegare dei testi mutili
desunti tra centinaia di scrittori della Compagnia, non facendo
distinzione tra i singoli individui e l'Ordine intero,
generalizzando con una evidente ingiustizia; di non tener conto del
modo di opinare delle varie epoche, potendo una data sentenza venir
considerata come buona in un secolo e rigettata in un altro; di non
tener conto che molti anche tra i dotti protestanti ritengono come
una calunniosa ed assurda invenzione quella massima ascritta ai
gesuiti; e che la Compagnia è una istituzione riconosciuta
dalla Chiesa e dallo Stato, il che non sarebbe certamente, qualora
essa tenesse dottrine, opinioni o massime contrarie alla sana
morale, alla pace sociale e all'ordine pubblico. Ed è
inconcepibile come l'accusa, non tenendo conto di tali circostanze,
con una accozzaglia di testi mutili, staccati, mal tradotti,
surrettizi, o mal compresi, abbia osato formulare e mettere in
pubblico un materiale di prova, senz'ombra di scrupolo, senza alcuna
critica, senza chiedersi neppure se le accuse facciano o no al caso,
o se siano vere ed inoppugnabili. Tal modo di procedere è
riprovevole: esso non ha altro scopo che di lanciare delle accuse
infondate contro la Compagnia di Gesù.
Perciò il Tribunale si crede in dovere di dichiarare che
le accuse, dinanzi alle prove, sono risultate non corrispondenti a
verità; che la sopracitata massima non è dottrina dei
gesuiti; che l'accusa mossa
alla Compagnia è una calunnia, e chi se ne fa reo è un
calunniatore. Avendo il denunziante calunniato, l'accusato aveva
tutto il diritto di chiamarlo calunniatore. Tanto più,
perchè è sentimento della Corte che la propalazione anche
di accuse certe può riuscire una calunnia, qualora avvenga con
intenzione di offendere: ed è fuor di dubbio che il dott.
Polonyi aveva intenzione di oltraggiare ed offendere la Compagnia.
È chiaro adunque che l'esame delle prove riesce
favorevole all'accusato; egli dunque dev'essere assolto.
* * *
I due episodi giudiziari di Kristiansand e di Budapest dei quali
abbiamo voluto dar conto ai lettori, darebbero luogo a molte
riflessioni. Essi sono una prova che l'odio
settario, l'acciecamento anticattolico non disarma, e volendo
sfogare il suo livore contro la vera Chiesa di Gesù Cristo,
addenta rabbiosamente quella Compagnia di Gesù che da secoli
è divenuto il bersaglio sul quale si vanno ad infrangere i
primi dardi.
Questa loro animosità, questa preferenza non ci offende; anzi
è un titolo del nostro vanto. Questa perfidia non ci spaventa.
Sappiamo dove e a chi essa mira veramente e ci conforta che portae
inferi non praevalebunt.
Ma più penose considerazioni ci suscita il riflettere
all'angustia intellettuale, all'infantile miseria di questa celebrata
cultura che va tanto tronfia e superba di sè. Dopo secoli di
polemiche compiute con serietà scientifica e con severa
investigazione da studiosi coscienziosi e oggettivi, sopra un
argomento diventato ormai tanto trito, noi vediamo non già
persone incolte e volgari, ma uomini che si fregiano di alti titoli
scientifici e godono di una tal quale reputazione, dare mostra di una
ignoranza veramente supina.
Varranno i due recenti processi a mettere fine,
una buona volta, al dilagare di tanta melma di odio e di calunnie che
scende nei vortici dei secoli? Al tempo del processo di Colonia la
nostra rivista si poneva lo stesso quesito. «Dopo un processo
sì pubblico e una sentenza sì chiara e perentoria di
assoluzione, — si domandava — si continuerà ancora a
calunniare i gesuiti, tacciandoli di dottrine perverse e di delitti
abbominevoli, sempre col solito ritornello del fine
che giustifica i mezzi?». La rivista rispondeva:
«non vi ha dubbio che, a dispetto di queste domande... la guerra
ai gesuiti continuerà come prima, anzi si farà più
accanita e popolare». Cambiano i tempi, cambiano gli strumenti
micidiali di guerra, ma l'odio antico non cessa, anzi diviene
tuttodì più acuto e furibondo.
Basta levare il capo e
scrutare, intorno nell'orizzonte, i segni precorritori di tempesta,
per essere ammoniti che i verdetti assolutorii pronunziati dai tre
tribunali, ove sedevano giudici non sospetti di gesuitismo, non
indurranno mai a rendere omaggio alla verità solennemente
proclamata, chi non la verità vuole, ma le tenebre; non
l'unione dei cuori, ma l'odio fraterno; non il vero avanzamento del
genere umano, ma il trionfo de' propri interessi e delle proprie
passioni, che sono capaci di giustificare qualunque mezzo, anche la
calunnia.
NOTE:
[1] I
gesuiti — Favole e leggende. Traduzione italiana di Gaetano Bruscoli. Firenze
1908. — Roma,
«Civiltà Cattolica» (due vol. in-8° gr.) Prezzo L.
10.
[3] L. c. pag. 16.
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