mercoledì 16 novembre 2016

IL PROCESSO HOENSBROECH-DASBACH DI COLONIA

La Civiltà Cattolica

anno 56°, vol. IV (fasc. 1327, 26 settembre 1905), Roma 1905 pag. 3-19.
SOMMARIO: I. I gesuiti non hanno nè possono avere altre dottrine che quelle della Chiesa. — II. Vertenza Hoenshroech-Dasbach e processo di Colonia circa la famosa massima: «Il fine giustifica i mezzi». — III. Esposizione dei motivi per la sentenza di assoluzione. — IV. Testimonianze non sospette sul valore della causa e della sentenza. — V. Riflessione i conclusione.

I.

«Quando si vorrà fare il processo alle dottrine dei gesuiti, si dovrà pur farlo a quelle della Chiesa cattolica.» Queste parole, rivolte da Enrico IV di Francia, or son già più di tre secoli, alla deputazione del parlamento parigino, contengono una verità storica evidentemente dimostrata.
Nè ad ottenere tale certezza dovettero adoperarsi, più degli altri, gli storiografi dell'ordine ignaziano e i loro fautori e aderenti; perocchè vi provvidero egregiamente i più autorevoli e sinceri tra i loro nemici, ma sopra tutti quegli storici protestanti moderni che, risalendo colle regole della critica allo studio imparziale delle fonti e vagliando con criterii oggettivi la realtà e il valore dei fatti, dovettero rendere ai gesuiti giustizia, confermando ciò che tra' cattolici era noto d'altronde, vale a dire la perfetta conformità delle dottrine da loro professate e insegnate colle dottrine della cattolica Chiesa.
Come poi, pur prescindendo dalla storia, possa e debba esser pubblicamente manifesta, tra gli onesti che vivono nei paesi cattolici, l'ortodossia dei gesuiti e la piena consonanza dei loro insegnamenti e principii religiosi con quelli della fede, della morale e della disciplina ecclesiastica, la è cosa questa che non ammette alcun dubbio e rende quindi superflua qualunque dimostrazione, purchè si voglia semplicemente riflettere che la Compagnia di Gesù, nata nella Chiesa, cresciuta in essa, prima soppressa e poi ristabilita dall'autorità della Chiesa, continua a vivere ed operare in essa e per essa, colla più perfetta soggezione al Sommo Pontefice e all'episcopato, secondo le costituzioni e le regole canonicamente approvate: senza parlare delle innumerevoli testimonianze di ortodossia, che fino ad oggi ha sempre ricevuto dall'autorità ecclesiastica.
Ed è sì valido, sì efficace questo argomento, che l'unica eccezione, a cui si potrebbe appigliarsi per impugnarlo, cioè la soppressione della Compagnia, ordinata da Clemente XIV, non giova che a confermarlo viemaggiormente. Il che riluce, non solo dal fatto che i gesuiti, colpiti allora da tanta sventura, diedero, col loro superiore generale alla testa, esempio segnalato ed eroico di rassegnazione ai divini voleri e di obbedienza all'autorità del Sommo Pontefice; come pure dall'altro fatto che, appena sedatasi alquanto la burrasca anticattolica, a cui era stata sacrificata la Compagnia di Gesù, Pio VII la faceva risorgere nella sua vera forma, identica cioè a quella che avea avuto prima della soppressione: ma sopratutto da ciò che il fatto stesso della sua immolazione mise in pienissima luce la perfetta conformità dell'istituto ignaziano colla dottrina e colla vita della Chiesa, anzi dimostrò evidentemente essere stata questa l'unica causa della sua soppressione.
Ormai su questo argomento e su tutti gli altri che gli si connettono la luce fatta dall'esame critico dei documenti contemporanei e sì piena, che chiunque continui ancora a ripetere le viete menzogne dei giansenisti e degli enciclopedisti sulle dottrine perverse dei gesuiti e sulla loro morale depravata, contraria alla civiltà e al patriottismo, per cui la Chiesa dovette sopprimere la Compagnia di Gesù, come gli umiliati e i templari, dinanzi al giudizio imparziale della sana critica moderna è condannato necessariamente o per grande ignoranza o per insigne malafede. Nulla insomma oggidì è più sicuramente dimostrato di questa proposizione: I gesuiti non hanno mai avuto nè hanno oggidì altra dottrina che quella della cattolica Chiesa, a cui non solo nella dottrina, ma nella vita e in tutta la loro attività sono, come ordine religioso da essa approvato, pienamente conformi e intieramente soggetti. Su di che, non potendo trattenerci più lungamente, rimandiamo i lettori a un'opera moderna, che val per molte di simil genere, cioè alle Favole gesuitiche del P. Duhr [1].

II.

Di un fatto però notevole, che si è svolto quest'anno in Germania, vogliam dire il famoso processo di Colonia intorno al così detto principio gesuitico: Il fine giustifica i mezzi, riputiam vantaggioso di trattar qui brevemente; e ciò per più ragioni: 1° perchè è questa l'accusa più comune e, vorremmo dire, più popolare, cioè più universalmente conosciuta, che si muove ai gesuiti ; 2° perchè sopra di essa si fonda in gran parte lo spettro o la chimera del cosiddetto gesuitismo e l'appellativo infamante di gesuita, nel senso registrato dal vocabolario e adoperato con tanta frequenza nelle conversazioni, nelle polemiche dei giornali e perfino nelle discussioni dei parlamenti; siccome quella che rende ragione adeguata della falsità, ipocrisia e perfidia, onde si accusano i gesuiti; 3° per l'importanza straordinaria che ha la sentenza giudiziaria di uno Stato protestante in una questione di merito, com'è quella di cui trattiamo; 4° perchè l'innocenza de' gesuiti, dimostrata perentoriamente con tanto rigore di procedimento contenzioso in questo argomento particolare, fa cadere necessariamente tutte le altre calunnie di principii e di fatti che ne conseguitano e vi si connettono, ed è perciò una specie di assoluzione generale, pronunciata dall'autorità giudiziaria, laica e protestante, a favore dei gesuiti; 5° perchè di tale questione non abbiam mai trattato ex professo nella nostra rivista; 6° perchè i giornali avversarii d'Italia, che stan sempre attenti a cogliere e strombettare a tutto spiano qualunque notizia, per quanto fantastica e inverisimile, che possa tornar a danno e sfregio  dei gesuiti (risalendo sempre da bravi moralisti alla famosa massima del fine che giustifica i mezzi), del processo di Colonia e del suo esito favorevole ai gesuiti han creduto bene di non informare i proprii lettori: 7° finalmente perchè si ha in ciò una nuova riprova che le dottrine gesuitiche non differiscono da quelle della Chiesa e perciò, com'è impossibile che questa insegni alcunchè di contrario alla sana morale, non altrimenti l'incolparne comechessia la Compagnia di Gesù non è che pretta e volgare calunnia.
Per procedere con tutta chiarezza e aprirci la via ad apprezzare bene il valore del processo di Colonia e della sentenza con cui esso si chiuse, fissiamo in prima sicuramente il significato dei termini.
La massima: Il fine giustifica i mezzi, si può intendere in tre diversi significati.
1.° Il fine buono giustifica o rende buoni i mezzi in sè indifferenti, cioè nè buoni nè cattivi, quando chi ne usa agisce con retta intenzione, secondo la sentenza evangelica: «Se il tuo occhio sarà puro, tutto il tuo corpo sarà luminoso» [2]. Così chi prende cibo, bevanda e riposo, colla intenzione di dar gloria a Dio e di ristorare le forze per poterlo servire, santifica e rende meritorie tali azioni, che in sè non hanno alcun valore di bene o male morale.
2.° Il fine buono giustifica o rende lecito, nella materia determinata dello scandalo, non già l'uso diretto e formale dei mezzi in sè cattivi, ma sì il consigliare ad alcuno di fare un male minore colla intenzione formale d'impedirne un altro maggiore; ovvero il permettere e non impedire ad alcuno l'occasione del male, pure colla intenzione di giovarsene per la correzione o punizione di chi lo commette; oppure il porgergli l'occasione al male, colla stessa intenzione di trarne giovamento per un fine onesto. Così è lecito persuadere chi vuole uccidere un suo nemico di contentarsi di una buona bastonatura; il lasciare che un servo rubi, allo scopo di coglierlo in fallo e rimediarvi per la sicurezza propria e per la sua emendazione; il prender denaro in prestito da un usuraio, per liberarsi da gravi angustie.
3.° Il fine buono giustifica, cioè rende buoni e leciti i mezzi cattivi, nel senso che qualunque azione moralmente illecita o malvagia diventa lecita e onesta con farla per ottenere un fine buono; p. e. l'adoperare la menzogna o la calunnia, per salvare la fama o la vita del prossimo. Il primo di questi tre significati, com'è chiaro, non entra nella presente controversia. Vedremo bentosto in quale maniera ci sia entrato il secondo; qui ci basti intanto ricordare ch'esso viene insegnato, come lecito, da S. Alfonso de' Liguori e da molti altri moralisti anche non gesuiti per tutti e tre i casi già citati, e non può quindi minimamente considerarsi come dottrina propria dei gesuiti, contraria o differente da quella della Chiesa e dei suoi teologi. Il terzo poi è incondizionatamente rigettato dalla dottrina unanime di tutti i moralisti cattolici gesuiti e non gesuiti, opposto ai principii certi della morale cristiana e della stessa etica naturale. Eppure chi non sa che, in attribuire ai gesuiti la famosa massima, la s'intende sempre in questo terzo senso e con esso si suol dar ragione di tutte le loro pretese doppiezze, furfanterie e scelleraggini?
Ma veniamo al fatto.
Il conte Paolo Hoensbroech, già religioso e sacerdote della Compagnia di Gesù, di poi apostata e luterano ammogliato, in render ragione al pubblico della sua uscita dall'Ordine, gli aveva da principio reso giustizia, chiamandolo «una istituzione ammirabile e grandiosa che tende ai fini più nobili e più sublimi» [3], affermando che esso «educa i proprii membri a diventar uomini di vita intemerata», e soggiungendo: «Specialmente la sua morale, tanto vilipesa, è una morale di purezza illibata. Chi ha pratica colle opere dei moralisti gesuiti potrà facilmente estrarne una lunga serie di risoluzioni e sentenze, che sembrano contraddire a questa affermazione e molte delle quali sono veramente da rigettarsi. Ma cotali risoluzioni sono errori di menti sottilizzanti, e non già traviamenti del cuore. Il voler costruire con codeste sentenze la morale dell'Ordine è cosa stolta insieme ed ingiusta. Furono esse dettate non già, come viene frequentemente asserito, dalla tendenza di render larga e facile la via del Cielo, bensì dal desiderio di fissare la linea di confine, spesso tenuissima e quasi impercettibile, che divide ciò ch'è moralmente lecito da quello ch'è illecito» [4]. Dopo queste testimonianze, che appartengono ai primi tempi della sua apostasia, l'infelice discese sempre più in giù sulla china fatale delle passioni settarie e delle lotte di partito, fino a pubblicare dieci anni più tardi un libello infamatorio contro la Compagnia di Gesù, in cui si proponeva di dimostrare che «la famosa massima: Il fine giustifica i mezzi, si trova teoreticamente propugnata e praticamente applicata presso tutti i moralisti gesuiti» [5] e che essa forma «uno dei cardini della immoralità oltramontano-gesuitica, dell'oltramontano-gesuitico anticristianesimo» [6].
La spinta a tale pubblicazione gli era stata data dal sacerdote Dasbach con una pubblica sfida, da questo fatta nell'adunanza appositamente tenuta a Rixdorf, per cui si obbligava di versare 2000 fiorini a chiunque riuscisse ad accertare un solo testo, ove i gesuiti insegnino che il fine giustifica i mezzi. Nella sua dichiarazione poi del 16 aprile 1903 il Dasbach affermò che la massima: Il fine giustifica i mezzi, doveva essere intesa nel senso, in cui viene attribuita ai gesuiti, cioè che «qualunque azione in sè moralmente riprovevole diventi moralmente lecita, quando venga eseguita per servire di mezzo a raggiungere un fine buono». Il conte Hoensbroech, colla sua dichiarazione del 22 maggio 1903, accettò senz'altro tale interpretazione. Postesi così d'accordo le parti, convennero pure nel proposito di sottoporre la questione all'autorità di un processo giudiziario, in cui l'Hoensbroech farebbe da querelante e da querelato il Dasbach, per provocare in tal guisa una soluzione solenne e definitiva della controversia. Ma il tribunale di Treviri respinse in prima istanza l'accusa, considerando la sfida come una scommessa unilaterale e applicandovi il § 762 C. C., che non ammette azione in giudizio per pagamento di scommesse. Al tribunale provinciale di Colonia la causa fu invece accettata in seconda istanza, non come scommessa, ma come promessa obbligatoria, e il 30 marzo di quest'anno, l'ottavo senato civile del tribunale stesso pronunciò finalmente la sentenza, con cui respingeva l'accusa dell'Hoensbroech e assolveva il Dasbach da qualunque obbligo di pagare la somma fissata nella sfida. Il Reichsbote chiamò tale sentenza una vittoria delta casuistica romana e il Berliner Tageblatt la disse addirittura l'assoluzione dell'Ordine gesuitico. Rimase quindi giudizialmente provato che nessun gesuita ha mai insegnata la massima: Il fine giustifica i mezzi.

III.

Sicuri di soddisfare una giusta curiosità dei lettori, vogliamo offrir qui loro qualche ragguaglio intorno all'esposizione dei motivi, con cui il tribunale ebbe giustificare la sentenza. E lo facciam tanto più volentieri, in quanto che vi si tratta veramente la questione di merito, cioè del valore che si deve attribuire alla massima: Il fine giustifica i mezzi, e delle prove da cui risultò che i gesuiti non l'hanno mai insegnata.
Rispetto anzitutto alla parte giuridica della controversia, ecco in compendio il ragionamento della corte di Colonia:
Alla domanda se l'argomento della querela costituisca una causa di diritto civile, a decider la quale sien chiamati i tribunali ordinarii, si deve rispondere affermativamente. Oggetto in vero dell'accusa non è la determinazione che l'accusatore abbia dimostrato insegnarsi dai gesuiti la massima: Il fine giustifica i mezzi, o trovarsi tal massima negli scritti dei gesuiti; sibbene l'oggetto consiste in una domanda di natura giuridico-economica; si riferisce cioè a un versamento di denaro.
Le ragioni, addotte dal giudizio di prima istanza, per dimostrare che nel caso si tratti di una scommessa, vengono escluse dalla dichiarazione esplicita delle parti, ch'esse non volevano fare una scommessa, bensì avevano la seria volontà di portare la controversia a una decisione giudiziaria, come pure dal fatto che l'accusato ha avuto la seria intenzione di obbligarsi al versamento della somma fissata. Non fece egli di fatto la sfida per isfogo rettorico o per glorificare sè stesso, ma colla seria intenzione di terminar la questione mediante la promessa di un premio. Sapeva egli pure che la sua pubblica dichiarazione nell'adunanza di Rixdorf verrebbe diffusa dalla stampa, e che per conseguenza ne avrebbero avuto contezza anche quelli i quali, per la propria coltura scientifica, sono chiamati a tentare la dimostrazione offerta. Gli stava inoltre certamente a cuore di giovare, colla sua promessa di compenso, alla causa dei gesuiti, sia con ottenere che nessuno si presentasse a dare la dimostrazione domandata per il fissato compenso, sia con offrire una dimostrazione che, secondo la sua ferma persuasione, non sarebbe riuscita. Non è dunque il caso di una scommessa, ma di una promessa obbligatoria di compenso.
Il tribunale passa poi al vero argomento della vertenza e dice testualmente:
Si domanda ora quale dimostrazione dovesse presentare l'accusatore per esigere il premio offerto dall'accusato, e s'egli abbia offerta tale dimostrazione. La trattazione di questa questione, che in prima istanza non fu ammessa nella discussione orale, venne non solo accettata in seconda istanza, secondo il § 537 dell'ordinamento di procedura civile; ma sembrava anzi contrario alla natura del processo il dividere la trattazione della questione di diritto da quella della questione di fatto.
La promessa, pubblicata dall'accusato nell'adunanza di Rixdorf, diceva che l'accusato pagherebbe 2000 fiorini a chiunque potesse accertare negli scritti dei gesuiti un sol passo, ove s'insegni la massima: Il fine giustifica i mezzi. Nella sua dichiarazione del 16 aprile 1903 l'accusato espose che la massima: Il fine giustifica i mezzi, dev'essere intesa nel senso in cui viene apposta ai gesuiti, cioè che ogni azione in sè moralmente riprovevole diventa moralmente lecita, quando venga adoperata come mezzo per raggiungere un fine buono». L'accusatore accettò tale interpretazione colla sua dichiarazione del 22 maggio 1903. Così le parti convennero nel senso che qui doveva darsi alla massima: Il fine giustifica i mezzi. Ora invece l'accusatore sostiene di aver diritto al premio, anche se gli riesca di dimostrare, per via di un ragionamento d'illazione, che i gesuiti insegnano la massima: Il fine giustifica i mezzi, che cioè la stessa si trova virtualmente negli scritti gesuitici: mentre l'accusato afferma dover l'accusatore dimostrare che la massima: Il fine giustifica i mezzi, si trova in alcun luogo degli scritti gesuitici; se non appunto con queste parole, certo espressa esplicitamente (formalmente).
Dappoichè nella promessa si tratta solamente di una dichiarazione unilaterale di volontà, che già obbliga il promettente, e non di un contratto; il solo accusato è qui in questione, come unico interprete di ciò ch'egli volle come oggetto della sua promessa. S'intende però che la sua interpretazione non deve contraddire al senso e al tenore della sua dichiarazione originaria. Ora la interpretazione data dall'accusato non solo non contraddice al senso e al tenore della dichiarazione da lui fatta a Rixdorf, ma anzi non può la stessa, degnamente valutata, intendersi altrimenti. Se cioè la proposizione: Il fine giustifica i mezzi, si deve qui intendere — come fu convenuto tra le parti e come venne sempre realmente rimproverato ai gesuiti dai loro avversarii — che «ciascuna azione moralmente in sè riprovevole diventa lecita, quando venga compiuta per servire di mezzo a raggiungere un fine buono», quindi di qualunque fine buono senza scelta e senza riguardo alle circostanze; se pertanto il querelato, a tenore della dichiarazione di Rixdorf, esige la dimostrazione di alcun testo degli scritti gesuitici, ove venga insegnato tale principio, in codesto testo deve necessariamente trovarsi scritto che tutte le azioni in sè riprovevoli sono lecite, in tutte le circostanze, per ottenere uno scopo buono; in altri termini la proposizione dev'essere espressa nel testo esplicitamente (formalmente) come un principio, sebbene sia indifferente con quali parole e in quale forma essa venga espressa.
Per tal guisa il thema probandum è fissato con precisione: «Chi esige il premio, pubblicamente promesso dal querelato, deve aver fatta la dimostrazione che in alcun luogo degli scritti gesuitici sta espresso esplicitamente e del tutto universalmente (formalmente) il principio, che qualunque azione in sè moralmente riprovevole diventa lecita, se venga eseguita come mezzo per ottenere alcun fine buono».
Il querelante afferma di aver data la richiesta dimostrazione nel suo scritto: Il fine giustifica i mezzi; e nella discussione orale ha asserito espressamente che nei passi, estratti dagli scritti gesuitici e da lui riportati nel suo scritto, la massima è espressa anche formalmente giusta il senso ch'è qui in controversia. Vero è che con tale affermazione egli contraddice alla sua stessa confessione, contenuta nella dichiarazione del 20 aprile 1903 (pag. 97 del suo scritto) ove si dice: «Nei luoghi citati degli scritti gesuitici naturalmente non si parla nè può parlarsi di tutte e singole le azioni in sè moralmente riprovevoli, sibbene vi si parla — come dimostrerò — di azioni riprovevoli determinate, che diventano moralmente lecite con essere poste quali mezzi per raggiungere un fine buono». Ma giacchè ormai tale affermazione fu fatta, è necessario esaminare sotto questo aspetto il contenuto degli estratti dagli scritti gesuitici, offerti dal querelante.
Intorno al testo e alla traduzione, le parti si accordarono in ciò, che il querelante accetta il testo e la traduzione, adoperati dal querelato nel suo scritto: Dasbach contro Hoensbroech (Treviri 1905), e negli estratti appositamente offerti del Sa [Manuel de Sá (1528 - 1596) gesuita portoghese N.d.R.], del Toleto e del Mariana, in quanto essi differiscono dal testo e dalla traduzione propria del querelante. Non occorre quindi accertare le prove, recate dal querelante per l'esattezza del suo testo.
Dovendo pertanto il tribunale esaminare se negli estratti di scritti gesuitici si contenga formalmente in alcun luogo la massima controversa nel senso suindicato, e non già se in quegli estratti la massima si contenga virtualmente, oppure se la massima si contenga in generale, formalmente o virtualmente, negli scritti dei gesuiti; e poichè l'esame del materiale offerto, da farsi entro questi confini ristretti, non richiede alcuna cognizione di una scienza speciale o di circostanze reali lontane, non fu necessario l'intervento di periti, sibbene il tribunale si trovava, secondo lo stato della cosa, in condizione di formarsi da sè un giudizio. Ora nel materiale offerto dal querelante non si trova nemmeno un sol luogo, in cui sia espressa la massima: "ciascuna azione in sè riprovevole diventa lecita se venga fatta per un fine buono". Tutti i luoghi, citati dal querelante, di scritti gesuitici, trattano anzi esclusivamente di singole azioni determinate, e vi si scioglie dai gesuiti la questione se queste, sotto certe determinate condizioni, sieno lecite.
Segue dipoi un esame accurato dei singoli testi prodotti dalle parti; ove i gesuiti, Vasquez, Sanchez, Becano, Laymann, Castropalao, Escobar, Tamburini e Voit, trattano la questione se sia lecito il consigliare una colpa leggera a chi è risoluto di commetterne una grave. Su di che il tribunale osserva che quivi non si tratta della licitezza della colpa leggera, ma sì della licitezza del consigliarla; che i citati autori cioè non derivano tale licitezza ex fine, ma ex obiecto, il quale è costituito non già dal commettere la colpa leggera, ma sì dalla diminuzione della colpa grave o dalla scelta di una colpa minore, oggetto questo in sè buono; e che, se pure si trattasse di fine e non di oggetto, il querelante non avrebbe tuttavia dimostrato nulla, perocchè sarebbe ancora il caso di un'azione determinata, dichiarata lecita per un fine esattamente determinato; mentre in nessuno dei testi citati non viene insegnato il principio universale, che «ogni azione in sè riprovevole è lecita per ogni fine buono».
Dopo un ulteriore esame di molti altri testi dei citati teologi, come pare dei Sa, Toleto, Mariana, Gury, Palmieri e Delrio, con un confronto diligente delle loro sentenze, conformi od opposte, in varii casi particolari, riguardanti la licitezza del permettere o presentare occasione al peccato, il tribunale conclude:
Il querelante non ha pertanto offerta la dimostrazione imposta dal querelato nella sua pubblica promessa. Epperò la richiesta da lui presentata del premio indicato è infondata. L'appello quindi contro la sentenza di prima istanza, che rigettava la querela, venne giustamente respinto per ragioni di fatto.

Le prove poi, recate inoltre dal querelante, che cioè tutti gli scritti gesuitici da lui citati in causa, portano l'imprimatur delle autorità Ecclesiastiche, e che gli scritti dei gesuiti, quelli in ispecie che trattano dello scandalo, pur oggi vengono adoperati nella Chiesa cattolica come libri di testo per la formazione dei confessori, sono senza valore già solo per ciò che tali fatti non vengono negati dal querelato [7].

IV.

La sentenza del tribunale di Colonia fu commentata in varii sensi, com'era naturale, dalla stampa germanica. Pel nostro scopo, giova qui ricordare il giudizio del dott. Ohr di Tubinga, che sulla protestante Frankfurter Zeitung scrisse:
Dobbiamo intendere la massima, come l'ha interpretata il tribunale: «qualunque azione diventa morale per un fine buono», oppure si deve essa intendere così: «certe azioni possono diventar morali per certi fini buoni?» Io credo che a questa domanda dobbiamo rispondere assolutamente nel senso del tribunale e del cappellano Dasbach. Altrimenti, se la pigliamo nel secondo significato, essa non significa punto alcunchè di specificamente proprio dei gesuiti, ma è un principio quasi universalmente riconosciuto in etica, che non si può affatto rimproverare ai gesuiti, perchè viene professato dai moralisti di tutte le confessioni religiose.
Quindi, dopo aver citato l'autorita del Paulsen, dell'Ihering e di Lutero, per giustificare la restrizione mentale (Notlüge), soggiunge:
L'Hoensbroech cita la sentenza del Palmieri: «È lecito desiderare la morte a un eretico, per il bene universale e per la salvezza di molti». Se in queste parole si contiene la massima: Il fine giustifica i mezzi, allora la si contiene pure indubitatamente anche nella lettera di S. Paolo ai Galati 5, 12: Utinam abscindantur qui vos conturbant! Del resto è noto che i riformatori alemanni, Lutero, Melantone e Bugenhagen, non si contentarono di questi desiderii, ma richiesero altresì la morte degli eretici [8].
Già prima ancora del processo, il libero pensatore K. Jentsch aveva pubblicato sulla impresa del conte Hoensbroech questo giudizio:
Nella sua controversia col Dasbach, l'Hoensbroech stesso ebbe a confessare che i testi del Busenbaum e di altri, sui quali si soleva finora fondare l'accusa, non hanno alcun valore dimostrativo. Tuttavia egli non vuole rinunciare alla partita. Ha quindi scoperto un nuovo fascio di testi di altro genere, che, secondo lui, contengono una morale perversa, perchè santificano i mezzi col fine. Tale morale perversa viene specificata nei casi seguenti. Se un padre sospetta che il figlio gli rubi, può dargli occasione di farlo, con lasciar la chiave sullo scrigno, per accertarsene. Se un marito sospetta di sua moglie, può apprestarle un tranello, per convincerla di adulterio. Se io so che il mio amico vuole uccidere un suo nemico, posso esortarlo e persuaderlo di vendicarsene con un buon carico di bastonate. Ora, tra persone ragionevoli, non è veramente necessario il dimostrare che s'egli trova una morale perversa, un eccitamento alla colpa nella dichiarazione che tali azioni sono lecite, l'Hoensbroech si rende ridicolo [9].
Ricordiamo da ultimo il giudizio definitivo, con cui il protestante Fischer, consigliere di Stato, più di mezzo secolo fa, conchiudeva la sua critica di questa infame calunnia:
Come mai si sia giunto a tanto, da attribuire a una intiera corporazione di persone, scelte per principio tra gli uomini più prudenti, una massima così stolta e affatto contraria alla costituzione fondamentale della stessa corporazione, anzi da designarla come la regola della loro attività, la è cosa tanto più incomprensibile, quanto meno possono mancare a persone prudenti i mezzi per raggiungere altrimenti il proprio scopo. In questo argomento ecco la verità: che l'Ordine dei gesuiti abbia quale statuto fondamentale segreto la massima: Il fine giustifica i mezzi, non è nè vero nè verosimile, nè fu mai asserito dagli studiosi serii tra i loro avversarii; sibbene è fondato unicamente sopra una opinione priva di fondamento e originata nel popolo dalle fonti più volgari della letteratura romanzesca e del ragionamento immaturo; la quale opinione è pero diventata una idea fissa [10].
Pare a noi che queste tre citazioni di protestanti e razionalisti giovino meglio di qualunque nostro commento, a finir di mettere in piena luce tutta l'importanza del processo di Colonia [11].

V.

Qui ci corrono alla penna certe riflessioni, che non sappiam tenerci di comunicare, con altrettanti punti interrogativi, ai nostri cortesi lettori, lasciando loro il facile còmpito di trovar le risposte.
La sentenza del tribunale di Colonia nel processo Dasbach-Hoensbroech, colle circostanze che lo precedettero ed accompagnarono, non basta ad annientare per sempre la calunnia che i gesuiti abbiano mai insegnato e tuttora insegnino la massima: Il fine giustifica i mezzi?
Giacchè quest'accusa è la più comune e universale di quante si muovono contro i gesuiti; da cui si può dire che abbia avuto origine il cosiddetto gesuitismo; di guisa che «come non si può concepire un moro senza il color nero, così la massima: Il fine giustifica i mezzi, è un attributo inseparabile dalla corporazione dei gesuiti» [12]; dimostrata con tanta solennità di evidenza l'innocenza dei gesuiti in questa parte, non si convertono forse in fumo, per legittima conseguenza, tutte le altre accuse, onde si appongono ai gesuiti dottrine contrarie e discrepanti da quelle della Chiesa e fatti conformi a cotali dottrine?
Dopo un processo sì pubblico e una sentenza sì chiara e perentoria di assoluzione, si continuerà ancora a calunniare i gesuiti, tacciandoli di dottrine perverse e di delitti abbominevoli, sempre col solito ritornello del fine che giustifica i mezzi?
E poichè non vi ha dubbio che a questa domanda convien purtroppo rispondere affermativamente [13]; chi cerca ed ama sinceramente la verità e l'onestà, dovrà aderire alla moderna convenzione sociale di menzogna, di odio e persecuzione contro i gesuiti, ovvero schierarsi con essi contro la triste congiura?
I gesuiti, in vedersi, dalla loro origine fino al presente, trattati sempre con tanta falsità ed ingiustizia dalla pubblica opinione: mentre la loro coscienza li assicura di non aver altre dottrine ne altre regole di vita che quelle che han ricevuto dalla Chiesa; quale concetto debbono formarsi di una civiltà che, fondandosi sopra mere calunnie, li tratta poco men che da banditi, e ciò in nome della libertà ed eguaglianza per tutti?
Il P. Duhr pone fine al suo libro: Favole gesuitiche, Un contributo alla storia della civiltà, con queste conclusioni:
1. È un fatto, dimostrato collo studio delle fonti, che moltissime manifeste menzogne sono in voga contro i gesuiti.
2. Tali menzogne furono sostenute con documenti falsificati, con lettere falsificate, con libri falsificati, con gesuiti inventati che non furono mai tali, con dottrine inventate che i gesuiti non hanno mai insegnato.
3. Di falsità intorno ai gesuiti, comprese le più stolte e grossolane, se ne trovano perfino nelle riviste scientifiche più accreditate, nelle discussioni e relazioni delle accademie, nelle opere dei più celebri storiografi, filosofi e teologi.
4. È quindi contrario alla critica il citare quali autorità contro i gesuiti tali scrittori, che furono convinti di simili falsità.
5. Per le molte ed inaudite falsità, quasi universalmente accettate dagli avversarii intorno ai gesuiti, la critica esige assolutamente che si ammettano con diffidenza e circospezione le accuse contro i gesuiti, anche se queste vengano espresse in opere e riviste scientifiche, e che, prima di ripetere cotali accuse, se ne faccia un diligente esame personale.
I gesuiti non han da temere di un esame serio e coscienzioso, sebbene, da uomini fragili che sono, sappiano di non andar immuni da pecche e difetti. Non temono di essere per avventura combattuti; purchè si combattano, non colla menzogna e colla calunnia, sibbene con armi leali. È questo d'altronde per l'avversario onesto un obbligo di quella stima ch'egli deve, oltrechè alla verità e alla giustizia, in primo luogo a se stesso [14].
Eppure non vi ha dubbio che, a dispetto di queste domande e di queste regole così ragionevoli, eque e doverose, a cui non si può mancare senza venir meno ai principii elementari della giustizia, la guerra ai gesuiti continuerà come prima; anzi, per opera del socialismo plebeo, si farà più accanita e popolare. La qual cosa, considerata come mezzo utilissimo ad osservare il loro istituto ed a raggiungerne il fine, non sarebbe pei gesuiti che un gran bene, se tal bene non andasse congiunto coi danni che la diffusione della menzogna, della empietà e della licenza, palliata quale apostolato di verità e di morale cristiana, produce in mezzo al popolo; danni che crescono e si moltiplicano a dismisura, per il fatto innegabile che la pubblicità convenzionale delle calunnie contro i gesuiti non rappresenta forse più di un millesimo della guerra universale di menzogne e di fellonie contro la religione e la Chiesa.
Qui facciamo punto, lasciando inferire ai lettori, a maniera di conclusione, di quanta vastità e importanza sia la missione imposta oggidì ai cattolici, di combattere cioè con armi pari, sul campo apologetico, contro le calunnie degli avversarii; e quanto sia a ciò vantaggiosa, anzi necessaria, quella concordia di propositi e quella concentrazione di tutte le nostre forze in un istituto nazionale di difesa religiosa, di coltura e di propaganda, a cui, coll'autorità che Gli viene dall'alto e colla sapienza pratica che Lo distingue, ci ha testè chiamati, nella ven. Enciclica sull'azione cattolica, il Sommo Pontefice Pio X.

NOTE:

[1] Bernhard Duhr S. I. Jesuiten-Fabeln, Ein Beitrag zur Kulturgeschichte, 4. Aufl., Herder, Freiburg im Breisgau, 1904. Della 2a edizione di quest'opera, unica nel suo genere e veramente insigne per valore critico-storico, abbiam già pubblicato una larga rivista nel quad. 1057, ser. XV, vol. XI, pp. 70 segg. Dopo la quale, il ch. Autore fece parecchi nuovi viaggi scientifici in Francia, Italia e Spagna, e raccolse quivi negli archivi abbondante materia da arricchirne la 3a edizione; venendogli fatto di trovare nel grande archivio di Stato a Simanca in Ispagna documenti così importanti, che valsero a sciogliere parecchie questioni fino allora rimaste insolubili. La 4a edizione poi del 1904, che abbiamo sotto gli occhi, fu perfezionata col frutto di nuovi studii fatti negli archivii e nelle biblioteche di Monaco; con ridurre e riordinare la materia delle edizioni precedenti, e con aggiungervi la confutazione di molte nuove accuse, che si riferiscono a fatti della storia più recente, fino a questi ultimi tempi. Noi vorremmo raccomandare a qualche coraggioso editore italiano di far voltare quest'opera in lingua nostrana e intraprenderne la pubblicazione, parendoci certo che il valore critico-storico del libro, congiunto colla curiosa amenità del soggetto e della esposizione, per cui l'opera si legge come un romanzo, provvederebbero a coprirne abbondantemente le spese.
[2] Matt. 6, 22.
[3] Mein Austritt aus dem Jesuitenorden, Preuss. Jahrbücher, Maiheft 1893, p. 303.
[4] Ib. p. 304.
[5] Der Zweck heiligt die Mittel als jesuitischer Grundsatz erwiesen. Erweiterter Sonderabdruck aus der Monatsschrift Deutschland, Juliheft 1903. pag. 5.
[6] Ib. p. 29.
[7] V. Kölnische Volkszeitung. 3, 4, 7 e 10 aprile 1905.
[8] Kölnische Volkszeitung, 10 aprile 1905.
[9] Die Zeit, Wien, 4 gennaio 1904.
[10] Aburtheilung der Jesuitensache, Leipzig 1853 p. 54.
[11] Una confutazione compiuta della calunnia, di cui abbiamo trattato, si trova nel libro, già citato, del P. Duhr, Jesuitenfabeln, pp. 542-563. Quivi pure si narra la storia e l'esito di un'altra sfida, fatta a Francoforte dal P. Roh nel 1852, rinnovata a Halle nel 1862 e nel 1863 a Brema, con un premio di 1000 fiorini a chi provasse, anche con un solo esempio, da presentarsi alla facoltà giuridica dell'università di Heidelberg o di Bonn o di Halle, che i gesuiti abbiano insegnata la massima: Il fine giustifica i mezzi. Il premio rimase esposto per 20 anni e si estinse colla morte del P. Roh nel 1872! Cf. The Immoral Teaching of the Jesuits del P. S. M. Brandi I. nella American C. Quarterly Review (luglio 1890) ove si trova un esame teologico dei singoli moralisti gesuiti su questo argomento. Più: Gerard S. I. The End Justifies the Means? Catholic Truth Society, London.
[12] Fra gli altri, il Berliner Tageblatt, in riferire la sentenza, protestò che dall'assoluzione del Dasbach non si poteva trarre alcuna conseguenza favorevole alla morale dei gesuiti!
[13] Fischer, l. c. p. 54.
[14] Duhr, l. c. p. 946.

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