IL PROCESSO HOENSBROECH-DASBACH DI COLONIA
La Civiltà Cattolica
anno 56°, vol. IV (fasc. 1327, 26 settembre 1905), Roma 1905 pag. 3-19.
SOMMARIO: I. I gesuiti non hanno nè possono avere altre
dottrine che quelle della Chiesa. — II. Vertenza
Hoenshroech-Dasbach e processo di Colonia circa la famosa massima:
«Il fine giustifica i mezzi». — III. Esposizione dei
motivi per la sentenza di assoluzione. — IV. Testimonianze non
sospette sul valore della causa e della sentenza. — V.
Riflessione i conclusione.
I.
«Quando si vorrà fare il processo alle dottrine dei
gesuiti, si dovrà pur farlo a quelle della Chiesa
cattolica.» Queste parole, rivolte da Enrico IV di Francia, or
son già più di tre secoli, alla deputazione del parlamento
parigino, contengono una verità storica evidentemente dimostrata.
Nè ad ottenere tale certezza dovettero adoperarsi, più
degli altri, gli storiografi dell'ordine ignaziano e i loro fautori e
aderenti; perocchè vi provvidero egregiamente i più
autorevoli e sinceri tra i loro nemici, ma sopra tutti quegli storici
protestanti moderni che, risalendo colle regole della critica allo
studio imparziale delle fonti e vagliando con criterii oggettivi la
realtà e il valore dei fatti, dovettero rendere ai gesuiti
giustizia, confermando ciò che tra' cattolici era noto
d'altronde, vale a dire la perfetta conformità delle dottrine da
loro professate e insegnate colle dottrine della cattolica Chiesa.
Come poi, pur prescindendo dalla storia, possa e debba esser
pubblicamente manifesta, tra gli onesti che vivono nei paesi
cattolici, l'ortodossia dei gesuiti e la piena consonanza dei loro
insegnamenti e principii religiosi con quelli della fede, della morale
e della disciplina ecclesiastica, la è cosa questa che non
ammette alcun dubbio e rende quindi superflua qualunque dimostrazione,
purchè si voglia semplicemente riflettere che la Compagnia di
Gesù, nata nella Chiesa, cresciuta in essa, prima soppressa e poi
ristabilita dall'autorità della Chiesa, continua a vivere ed
operare in essa e per essa, colla più perfetta soggezione al
Sommo Pontefice e all'episcopato, secondo le costituzioni e le regole
canonicamente approvate: senza parlare delle innumerevoli
testimonianze di ortodossia, che fino ad oggi ha sempre ricevuto
dall'autorità ecclesiastica.
Ed è sì valido,
sì efficace questo argomento, che l'unica eccezione, a cui si
potrebbe appigliarsi per impugnarlo, cioè la soppressione della
Compagnia, ordinata da Clemente XIV, non giova che a confermarlo
viemaggiormente. Il che riluce, non solo dal fatto che i gesuiti,
colpiti allora da tanta sventura, diedero, col loro superiore
generale alla testa, esempio segnalato ed eroico di rassegnazione ai
divini voleri e di obbedienza all'autorità del Sommo Pontefice;
come pure dall'altro fatto che, appena sedatasi alquanto la burrasca
anticattolica, a cui era stata sacrificata la Compagnia di
Gesù, Pio VII la faceva risorgere nella sua vera forma,
identica cioè a quella che avea avuto prima della soppressione:
ma sopratutto da ciò che il fatto stesso della sua immolazione
mise in pienissima luce la perfetta conformità dell'istituto
ignaziano colla dottrina e colla vita della Chiesa, anzi
dimostrò evidentemente essere stata questa l'unica causa della
sua soppressione.
Ormai su questo argomento e su tutti gli altri che gli si connettono
la luce fatta dall'esame critico dei documenti contemporanei e sì
piena, che chiunque continui ancora a ripetere le viete menzogne dei
giansenisti e degli enciclopedisti sulle dottrine perverse dei gesuiti
e sulla loro morale depravata, contraria alla civiltà e al
patriottismo, per cui la Chiesa dovette sopprimere la Compagnia di
Gesù, come gli umiliati e i templari, dinanzi al giudizio
imparziale della sana critica moderna è condannato
necessariamente o per grande ignoranza o per insigne malafede. Nulla
insomma oggidì è più sicuramente dimostrato di questa
proposizione: I gesuiti non
hanno mai avuto nè hanno oggidì altra dottrina che quella
della cattolica Chiesa, a cui non solo nella dottrina, ma nella vita
e in tutta la loro attività sono, come ordine religioso da essa
approvato, pienamente conformi e intieramente soggetti. Su di
che, non potendo trattenerci più lungamente, rimandiamo i lettori
a un'opera moderna, che val per molte di simil genere, cioè alle
Favole gesuitiche del P.
Duhr [1].
II.
Di un fatto però notevole, che si è svolto quest'anno in
Germania, vogliam dire il famoso processo di Colonia intorno al
così detto principio gesuitico:
Il fine giustifica i mezzi, riputiam vantaggioso di trattar
qui brevemente; e ciò per più ragioni: 1° perchè
è questa l'accusa più comune e, vorremmo dire, più
popolare, cioè più universalmente conosciuta, che si muove
ai gesuiti ; 2° perchè sopra di essa si fonda in gran parte
lo spettro o la chimera del cosiddetto gesuitismo
e l'appellativo infamante di gesuita,
nel senso registrato dal vocabolario e adoperato con tanta frequenza
nelle conversazioni, nelle polemiche dei giornali e perfino nelle
discussioni dei parlamenti; siccome quella che rende ragione adeguata
della falsità, ipocrisia e perfidia, onde si accusano i gesuiti;
3° per l'importanza straordinaria che ha la sentenza giudiziaria
di uno Stato protestante in una questione di merito, com'è quella
di cui trattiamo; 4° perchè l'innocenza de' gesuiti,
dimostrata perentoriamente con tanto rigore di procedimento
contenzioso in questo argomento particolare, fa cadere necessariamente
tutte le altre calunnie di principii e di fatti che ne conseguitano e
vi si connettono, ed è perciò una specie di assoluzione
generale, pronunciata dall'autorità giudiziaria, laica e
protestante, a favore dei gesuiti; 5° perchè di tale
questione non abbiam mai trattato ex professo nella nostra rivista;
6° perchè i giornali avversarii d'Italia, che stan sempre
attenti a cogliere e strombettare a tutto spiano qualunque notizia,
per quanto fantastica e inverisimile, che possa tornar a danno e
sfregio dei gesuiti (risalendo sempre da bravi moralisti alla
famosa massima del fine che
giustifica i mezzi), del processo di Colonia e del suo esito
favorevole ai gesuiti han creduto bene di non informare i proprii
lettori: 7° finalmente perchè si ha in ciò una nuova
riprova che le dottrine
gesuitiche non differiscono da quelle della Chiesa e perciò,
com'è impossibile che questa insegni alcunchè di contrario
alla sana morale, non altrimenti l'incolparne comechessia la
Compagnia di Gesù non è che pretta e volgare calunnia.
Per procedere con tutta chiarezza e aprirci la via ad apprezzare bene
il valore del processo di Colonia e della sentenza con cui esso si
chiuse, fissiamo in prima sicuramente il significato dei termini.
La massima: Il fine giustifica i
mezzi, si può intendere in tre diversi significati.
1.° Il fine buono giustifica o rende buoni i mezzi in sè
indifferenti, cioè nè buoni nè cattivi, quando chi ne
usa agisce con retta intenzione, secondo la sentenza evangelica:
«Se il tuo occhio sarà puro, tutto il tuo corpo sarà
luminoso» [2]. Così chi
prende cibo, bevanda e riposo, colla intenzione di dar gloria a Dio e
di ristorare le forze per poterlo servire, santifica e rende meritorie
tali azioni, che in sè non hanno alcun valore di bene o male
morale.
2.° Il fine buono giustifica o rende lecito, nella
materia determinata dello scandalo, non già l'uso diretto e
formale dei mezzi in sè cattivi, ma sì il consigliare
ad alcuno di fare un male minore colla intenzione formale
d'impedirne un altro maggiore; ovvero il permettere
e non impedire ad
alcuno l'occasione del male, pure colla intenzione di giovarsene per
la correzione o punizione di chi lo commette; oppure il porgergli
l'occasione al male, colla stessa intenzione di trarne
giovamento per un fine onesto. Così è lecito persuadere chi
vuole uccidere un suo nemico di contentarsi di una buona bastonatura;
il lasciare che un servo rubi, allo scopo di coglierlo in fallo e
rimediarvi per la sicurezza propria e per la sua emendazione; il
prender denaro in prestito da un usuraio, per liberarsi da gravi
angustie.
3.° Il fine buono giustifica, cioè rende buoni e leciti i
mezzi cattivi, nel senso che qualunque azione moralmente illecita o
malvagia diventa lecita e onesta con farla per ottenere un fine buono;
p. e. l'adoperare la menzogna o la calunnia, per salvare la fama o la
vita del prossimo. Il primo di questi tre significati, com'è
chiaro, non entra nella presente controversia. Vedremo bentosto in
quale maniera ci sia entrato il secondo; qui ci basti intanto
ricordare ch'esso viene insegnato, come lecito, da S. Alfonso de'
Liguori e da molti altri moralisti anche non gesuiti per tutti e tre i
casi già citati, e non può quindi minimamente considerarsi
come dottrina propria dei gesuiti, contraria o differente da quella
della Chiesa e dei suoi teologi. Il terzo poi è
incondizionatamente rigettato dalla dottrina unanime di tutti i
moralisti cattolici gesuiti e non gesuiti, opposto ai principii certi
della morale cristiana e della stessa etica naturale. Eppure chi non
sa che, in attribuire ai gesuiti la famosa massima, la s'intende
sempre in questo terzo senso e con esso si suol dar ragione di tutte
le loro pretese doppiezze, furfanterie e scelleraggini?
Ma veniamo al fatto.
Il conte Paolo Hoensbroech, già religioso e sacerdote della
Compagnia di Gesù, di poi apostata e luterano ammogliato, in
render ragione al pubblico della sua uscita dall'Ordine, gli aveva da
principio reso giustizia, chiamandolo «una istituzione ammirabile
e grandiosa che tende ai fini più nobili e più sublimi»
[3], affermando che esso
«educa i proprii membri a diventar uomini di vita
intemerata», e soggiungendo: «Specialmente la sua morale,
tanto vilipesa, è una morale di purezza illibata. Chi ha pratica
colle opere dei moralisti gesuiti potrà facilmente estrarne una
lunga serie di risoluzioni e sentenze, che sembrano contraddire a
questa affermazione e molte delle quali sono veramente da rigettarsi.
Ma cotali risoluzioni sono errori di menti sottilizzanti, e non
già traviamenti del cuore. Il voler costruire con codeste
sentenze la morale dell'Ordine è cosa stolta insieme ed ingiusta.
Furono esse dettate non già, come viene frequentemente asserito,
dalla tendenza di render larga e facile la via del Cielo, bensì
dal desiderio di fissare la linea di confine, spesso tenuissima e
quasi impercettibile, che divide ciò ch'è moralmente lecito
da quello ch'è illecito» [4].
Dopo queste testimonianze, che appartengono ai primi tempi della sua
apostasia, l'infelice discese sempre più in giù sulla china
fatale delle passioni settarie e delle lotte di partito, fino a
pubblicare dieci anni più tardi un libello infamatorio contro la
Compagnia di Gesù, in cui si proponeva di dimostrare che «la
famosa massima: Il
fine giustifica i mezzi, si trova teoreticamente propugnata e
praticamente applicata presso tutti i moralisti gesuiti» [5] e che essa forma «uno dei cardini della
immoralità oltramontano-gesuitica, dell'oltramontano-gesuitico
anticristianesimo» [6].
La spinta a tale pubblicazione gli era stata data dal sacerdote
Dasbach con una pubblica sfida, da questo fatta nell'adunanza
appositamente tenuta a Rixdorf, per cui si obbligava di versare 2000
fiorini a chiunque riuscisse ad accertare un solo testo, ove i gesuiti
insegnino che il fine giustifica i
mezzi. Nella sua dichiarazione poi del 16 aprile 1903 il
Dasbach affermò che la massima: Il
fine giustifica i mezzi, doveva essere intesa nel senso, in
cui viene attribuita ai gesuiti, cioè che «qualunque azione
in sè moralmente riprovevole diventi moralmente lecita, quando
venga eseguita per servire di mezzo a raggiungere un fine buono».
Il conte Hoensbroech, colla sua dichiarazione del 22 maggio 1903,
accettò senz'altro tale interpretazione. Postesi così
d'accordo le parti, convennero pure nel proposito di sottoporre la
questione all'autorità di un processo giudiziario, in cui
l'Hoensbroech farebbe da querelante e da querelato il Dasbach, per
provocare in tal guisa una soluzione solenne e definitiva della
controversia. Ma il tribunale di Treviri respinse in prima istanza
l'accusa, considerando la sfida come una scommessa unilaterale e
applicandovi il § 762 C. C., che non ammette azione in giudizio
per pagamento di scommesse. Al tribunale provinciale di Colonia la
causa fu invece accettata in seconda istanza, non come scommessa, ma
come promessa obbligatoria, e il 30 marzo di quest'anno, l'ottavo
senato civile del tribunale stesso pronunciò finalmente la
sentenza, con cui respingeva l'accusa dell'Hoensbroech e assolveva il
Dasbach da qualunque obbligo di pagare la somma fissata nella sfida.
Il Reichsbote chiamò
tale sentenza una vittoria delta
casuistica romana e il Berliner
Tageblatt la disse addirittura l'assoluzione
dell'Ordine gesuitico. Rimase quindi giudizialmente provato
che nessun gesuita ha mai insegnata la massima: Il
fine giustifica i mezzi.
III.
Sicuri di soddisfare una giusta curiosità dei lettori, vogliamo
offrir qui loro qualche ragguaglio intorno all'esposizione dei motivi,
con cui il tribunale ebbe giustificare la sentenza. E lo facciam tanto
più volentieri, in quanto che vi si tratta veramente la questione
di merito, cioè del valore che si deve attribuire alla massima: Il fine giustifica i mezzi, e
delle prove da cui risultò che i gesuiti non l'hanno mai
insegnata.
Rispetto anzitutto alla parte giuridica della controversia, ecco in
compendio il ragionamento della corte di Colonia:
Alla domanda se l'argomento della querela costituisca una
causa di diritto civile, a decider la quale sien chiamati i
tribunali ordinarii, si deve rispondere affermativamente. Oggetto in
vero dell'accusa non è la determinazione che l'accusatore abbia
dimostrato insegnarsi dai gesuiti la massima: Il
fine giustifica i mezzi, o trovarsi tal massima negli
scritti dei gesuiti; sibbene l'oggetto consiste in una domanda di
natura giuridico-economica; si riferisce cioè a un versamento
di denaro.
Le ragioni, addotte dal giudizio di prima istanza, per
dimostrare che nel caso si tratti di una scommessa, vengono escluse
dalla dichiarazione esplicita delle parti, ch'esse non volevano fare
una scommessa, bensì avevano la seria volontà di portare
la controversia a una decisione giudiziaria, come pure dal fatto che
l'accusato ha avuto la seria intenzione di obbligarsi al versamento
della somma fissata. Non fece egli di fatto la sfida per isfogo
rettorico o per glorificare sè stesso, ma colla seria
intenzione di terminar la questione mediante la promessa di un
premio. Sapeva egli pure che la sua pubblica dichiarazione
nell'adunanza di Rixdorf verrebbe diffusa dalla stampa, e che per
conseguenza ne avrebbero avuto contezza anche quelli i quali, per la
propria coltura scientifica, sono chiamati a tentare la
dimostrazione offerta. Gli stava inoltre certamente a cuore di
giovare, colla sua promessa di compenso, alla causa dei gesuiti, sia
con ottenere che nessuno si presentasse a dare la dimostrazione
domandata per il fissato compenso, sia con offrire una dimostrazione
che, secondo la sua ferma persuasione, non sarebbe riuscita. Non
è dunque il caso di una scommessa, ma di una promessa
obbligatoria di compenso.
Il tribunale passa poi al vero argomento della vertenza e dice
testualmente:
Si domanda ora quale dimostrazione dovesse presentare
l'accusatore per esigere il premio offerto dall'accusato, e s'egli
abbia offerta tale dimostrazione. La trattazione di questa
questione, che in prima istanza non fu ammessa nella discussione
orale, venne non solo accettata in seconda istanza, secondo il
§ 537 dell'ordinamento di procedura civile; ma sembrava anzi
contrario alla natura del processo il dividere la trattazione della
questione di diritto da quella della questione di fatto.
La promessa, pubblicata dall'accusato nell'adunanza di
Rixdorf, diceva che l'accusato pagherebbe 2000 fiorini a chiunque
potesse accertare negli scritti dei gesuiti un sol passo, ove
s'insegni la massima: Il fine
giustifica i mezzi. Nella sua dichiarazione del 16 aprile
1903 l'accusato espose che la massima: Il
fine giustifica i mezzi, dev'essere intesa nel senso in cui
viene apposta ai gesuiti, cioè che ogni azione in sè
moralmente riprovevole diventa moralmente lecita, quando venga
adoperata come mezzo per raggiungere un fine buono».
L'accusatore accettò tale interpretazione colla sua
dichiarazione del 22 maggio 1903. Così le parti convennero nel
senso che qui doveva darsi alla massima: Il
fine giustifica i mezzi. Ora invece l'accusatore sostiene
di aver diritto al premio, anche se gli riesca di dimostrare, per
via di un ragionamento d'illazione, che i gesuiti insegnano la
massima: Il fine giustifica i
mezzi, che cioè la stessa si trova virtualmente negli
scritti gesuitici: mentre l'accusato afferma dover l'accusatore
dimostrare che la massima: Il
fine giustifica i mezzi, si trova in alcun luogo degli
scritti gesuitici; se non appunto con queste parole, certo espressa
esplicitamente (formalmente).
Dappoichè nella promessa si tratta solamente di una
dichiarazione unilaterale di volontà, che già obbliga il
promettente, e non di un contratto; il solo accusato è qui in
questione, come unico interprete di ciò ch'egli volle come
oggetto della sua promessa. S'intende però che la sua
interpretazione non deve contraddire al senso e al tenore della sua
dichiarazione originaria. Ora la interpretazione data dall'accusato
non solo non contraddice al senso e al tenore della dichiarazione da
lui fatta a Rixdorf, ma anzi non può la stessa, degnamente
valutata, intendersi altrimenti. Se cioè la proposizione: Il fine giustifica i mezzi, si
deve qui intendere — come fu convenuto tra le parti e come
venne sempre realmente rimproverato ai gesuiti dai loro avversarii
— che «ciascuna azione moralmente in sè riprovevole
diventa lecita, quando venga compiuta per servire di mezzo a
raggiungere un fine buono», quindi di qualunque fine buono
senza scelta e senza riguardo alle circostanze; se pertanto il
querelato, a tenore della dichiarazione di Rixdorf, esige la
dimostrazione di alcun testo degli scritti gesuitici, ove venga
insegnato tale principio, in codesto testo deve necessariamente
trovarsi scritto che tutte le azioni in sè riprovevoli sono
lecite, in tutte le circostanze, per ottenere uno scopo buono; in
altri termini la proposizione dev'essere espressa nel testo
esplicitamente (formalmente)
come un principio, sebbene sia indifferente con quali parole e in
quale forma essa venga espressa.
Per tal guisa il thema
probandum è fissato con precisione: «Chi esige il
premio, pubblicamente promesso dal querelato, deve aver fatta la
dimostrazione che in alcun luogo degli scritti gesuitici sta
espresso esplicitamente e del tutto universalmente (formalmente)
il principio, che qualunque azione in sè moralmente riprovevole
diventa lecita, se venga eseguita come mezzo per ottenere alcun fine
buono».
Il querelante afferma di aver data la richiesta dimostrazione
nel suo scritto: Il fine
giustifica i mezzi; e nella discussione orale ha asserito
espressamente che nei passi, estratti dagli scritti gesuitici e da
lui riportati nel suo scritto, la massima è espressa anche formalmente giusta il senso
ch'è qui in controversia. Vero è che con tale affermazione
egli contraddice alla sua stessa confessione, contenuta nella
dichiarazione del 20 aprile 1903 (pag. 97 del suo scritto) ove si
dice: «Nei luoghi citati degli scritti gesuitici naturalmente
non si parla nè può parlarsi di tutte e singole le azioni
in sè moralmente riprovevoli, sibbene vi si parla — come
dimostrerò — di azioni riprovevoli determinate, che
diventano moralmente lecite con essere poste quali mezzi per
raggiungere un fine buono». Ma giacchè ormai tale
affermazione fu fatta, è necessario esaminare sotto questo
aspetto il contenuto degli estratti dagli scritti gesuitici, offerti
dal querelante.
Intorno al testo e alla traduzione, le parti si accordarono in
ciò, che il querelante accetta il testo e la traduzione,
adoperati dal querelato nel suo scritto: Dasbach
contro Hoensbroech (Treviri 1905), e negli estratti
appositamente offerti del Sa [Manuel de Sá (1528 - 1596)
gesuita portoghese N.d.R.], del Toleto
e del Mariana, in quanto essi differiscono dal testo e dalla
traduzione propria del querelante. Non occorre quindi accertare le
prove, recate dal querelante per l'esattezza del suo testo.
Dovendo pertanto il tribunale esaminare se negli estratti di
scritti gesuitici si contenga formalmente
in alcun luogo la massima controversa nel senso suindicato,
e non già se in quegli estratti la massima si contenga virtualmente,
oppure se la massima si contenga in generale, formalmente o
virtualmente, negli scritti dei gesuiti; e poichè l'esame del
materiale offerto, da farsi entro questi confini ristretti, non
richiede alcuna cognizione di una scienza speciale o di circostanze
reali lontane, non fu necessario l'intervento di periti, sibbene il
tribunale si trovava, secondo lo stato della cosa, in condizione di
formarsi da sè un giudizio. Ora
nel materiale offerto dal querelante non si trova nemmeno un sol
luogo, in cui sia espressa la massima: "ciascuna azione in sè
riprovevole diventa lecita se venga fatta per un fine buono".
Tutti i luoghi, citati dal querelante, di scritti gesuitici,
trattano anzi esclusivamente di singole azioni determinate, e vi
si scioglie dai gesuiti la questione se queste, sotto certe
determinate condizioni, sieno lecite.
Segue dipoi un esame accurato dei singoli testi prodotti dalle parti;
ove i gesuiti, Vasquez, Sanchez, Becano, Laymann, Castropalao,
Escobar, Tamburini e Voit, trattano la questione se sia lecito il consigliare una colpa leggera a
chi è risoluto di commetterne una grave. Su di che il tribunale
osserva che quivi non si tratta della licitezza della colpa leggera,
ma sì della licitezza del consigliarla; che i citati autori
cioè non derivano tale licitezza ex
fine, ma ex obiecto,
il quale è costituito non già dal commettere la colpa
leggera, ma sì dalla diminuzione della colpa grave o dalla scelta
di una colpa minore, oggetto questo in sè buono; e che, se pure
si trattasse di fine e non di oggetto, il querelante non avrebbe
tuttavia dimostrato nulla, perocchè sarebbe ancora il caso di
un'azione determinata, dichiarata lecita per un fine esattamente
determinato; mentre in nessuno dei testi citati non viene insegnato il
principio universale, che «ogni azione in sè riprovevole
è lecita per ogni fine buono».
Dopo un ulteriore esame di molti altri testi dei citati teologi, come
pare dei Sa, Toleto, Mariana, Gury, Palmieri e Delrio, con un
confronto diligente delle loro sentenze, conformi od opposte, in varii
casi particolari, riguardanti la licitezza del permettere
o presentare occasione
al peccato, il tribunale conclude:
Il querelante non ha
pertanto offerta la dimostrazione imposta dal querelato nella sua
pubblica promessa. Epperò la richiesta da lui presentata del
premio indicato è infondata. L'appello quindi contro
la sentenza di prima istanza, che rigettava la querela, venne
giustamente respinto per ragioni di fatto.
Le prove poi, recate inoltre dal querelante, che cioè
tutti gli scritti gesuitici da lui citati in causa, portano l'imprimatur delle
autorità Ecclesiastiche, e che gli scritti dei gesuiti, quelli
in ispecie che trattano dello scandalo, pur oggi vengono adoperati
nella Chiesa cattolica come libri di testo per la formazione dei
confessori, sono senza valore già solo per ciò che tali
fatti non vengono negati dal querelato [7].
IV.
La sentenza del tribunale di Colonia fu commentata in varii sensi,
com'era naturale, dalla stampa germanica. Pel nostro scopo, giova qui
ricordare il giudizio del dott. Ohr di Tubinga, che sulla protestante
Frankfurter Zeitung scrisse:
Dobbiamo intendere la massima, come l'ha interpretata il
tribunale: «qualunque azione diventa morale per un fine
buono», oppure si deve essa intendere così: «certe
azioni possono diventar morali per certi fini buoni?» Io credo
che a questa domanda dobbiamo rispondere assolutamente nel senso del
tribunale e del cappellano Dasbach. Altrimenti, se la pigliamo nel
secondo significato, essa non significa punto alcunchè di
specificamente proprio dei gesuiti, ma è un principio quasi
universalmente riconosciuto in etica, che non si può affatto
rimproverare ai gesuiti, perchè viene professato dai moralisti
di tutte le confessioni religiose.
Quindi, dopo aver citato l'autorita del Paulsen, dell'Ihering e di
Lutero, per giustificare la restrizione mentale (Notlüge),
soggiunge:
L'Hoensbroech cita la sentenza del Palmieri: «È
lecito desiderare la morte a un eretico, per il bene universale e
per la salvezza di molti». Se in queste parole si contiene la
massima: Il fine giustifica i
mezzi, allora la si contiene pure indubitatamente anche
nella lettera di S. Paolo ai Galati 5, 12: Utinam
abscindantur qui vos conturbant! Del resto è noto che
i riformatori alemanni, Lutero, Melantone e Bugenhagen, non si
contentarono di questi desiderii, ma richiesero altresì la
morte degli eretici [8].
Già prima ancora del processo, il libero pensatore K. Jentsch
aveva pubblicato sulla impresa del conte Hoensbroech questo giudizio:
Nella sua controversia col Dasbach, l'Hoensbroech stesso ebbe
a confessare che i testi del Busenbaum e di altri, sui quali si
soleva finora fondare l'accusa, non hanno alcun valore dimostrativo.
Tuttavia egli non vuole rinunciare alla partita. Ha quindi scoperto
un nuovo fascio di testi di altro genere, che, secondo lui,
contengono una morale perversa,
perchè santificano i mezzi col fine. Tale morale
perversa viene specificata nei casi seguenti. Se un padre
sospetta che il figlio gli rubi, può dargli occasione di farlo,
con lasciar la chiave sullo scrigno, per accertarsene. Se un marito
sospetta di sua moglie, può apprestarle un tranello, per
convincerla di adulterio. Se io so che il mio amico vuole uccidere
un suo nemico, posso esortarlo e persuaderlo di vendicarsene con un
buon carico di bastonate. Ora, tra persone ragionevoli, non è
veramente necessario il dimostrare che s'egli trova una morale
perversa, un eccitamento alla colpa nella dichiarazione che tali
azioni sono lecite, l'Hoensbroech si rende ridicolo [9].
Ricordiamo da ultimo il giudizio definitivo, con cui il protestante
Fischer, consigliere di Stato, più di mezzo secolo fa,
conchiudeva la sua critica di questa infame calunnia:
Come mai si sia giunto a tanto, da attribuire a una intiera
corporazione di persone, scelte per principio tra gli uomini
più prudenti, una massima così stolta e affatto contraria
alla costituzione fondamentale della stessa corporazione, anzi da
designarla come la regola della loro attività, la è cosa
tanto più incomprensibile, quanto meno possono mancare a
persone prudenti i mezzi per raggiungere altrimenti il proprio
scopo. In questo argomento ecco
la verità: che l'Ordine dei gesuiti abbia quale statuto
fondamentale segreto la massima: Il
fine giustifica i mezzi, non è nè vero nè
verosimile, nè fu mai asserito dagli studiosi serii tra i
loro avversarii; sibbene è fondato unicamente sopra una
opinione priva di fondamento e originata nel popolo dalle fonti
più volgari della letteratura romanzesca e del ragionamento
immaturo; la quale opinione è pero diventata una idea fissa
[10].
Pare a noi che queste tre citazioni di protestanti e razionalisti
giovino meglio di qualunque nostro commento, a finir di mettere in
piena luce tutta l'importanza del processo di Colonia [11].
V.
Qui ci corrono alla penna certe riflessioni, che non sappiam tenerci
di comunicare, con altrettanti punti interrogativi, ai nostri cortesi
lettori, lasciando loro il facile còmpito di trovar le risposte.
La sentenza del tribunale di Colonia nel processo
Dasbach-Hoensbroech, colle circostanze che lo precedettero ed
accompagnarono, non basta ad annientare per sempre la calunnia che i
gesuiti abbiano mai insegnato e tuttora insegnino la massima: Il
fine giustifica i mezzi?
Giacchè quest'accusa è la più comune e universale di
quante si muovono contro i gesuiti; da cui si può dire che abbia
avuto origine il cosiddetto gesuitismo;
di guisa che «come non si può concepire un moro senza il
color nero, così la massima: Il
fine giustifica i mezzi, è un attributo inseparabile
dalla corporazione dei gesuiti» [12];
dimostrata con tanta solennità di evidenza l'innocenza dei
gesuiti in questa parte, non si convertono forse in fumo, per
legittima conseguenza, tutte le altre accuse, onde si appongono ai
gesuiti dottrine contrarie e discrepanti da quelle della Chiesa e
fatti conformi a cotali dottrine?
Dopo un processo sì pubblico e una sentenza sì chiara e
perentoria di assoluzione, si continuerà ancora a calunniare i
gesuiti, tacciandoli di dottrine perverse e di delitti abbominevoli,
sempre col solito ritornello del fine
che giustifica i mezzi?
E poichè non vi ha dubbio che a questa domanda convien purtroppo
rispondere affermativamente [13];
chi cerca ed ama sinceramente la verità e l'onestà,
dovrà aderire
alla moderna convenzione sociale di menzogna, di odio
e persecuzione contro i gesuiti, ovvero schierarsi con essi contro la
triste congiura?
I gesuiti, in vedersi, dalla loro origine fino al presente, trattati
sempre con tanta falsità ed ingiustizia dalla pubblica opinione:
mentre la loro coscienza li assicura di non aver altre dottrine ne
altre regole di vita che quelle che han ricevuto dalla Chiesa; quale
concetto debbono formarsi di una civiltà che, fondandosi sopra
mere calunnie, li tratta poco men che da banditi, e ciò in nome
della libertà ed eguaglianza per tutti?
Il P. Duhr pone fine al suo libro: Favole
gesuitiche, Un contributo alla storia della civiltà, con
queste conclusioni:
1. È un fatto, dimostrato collo studio delle fonti, che
moltissime manifeste menzogne sono in voga contro i gesuiti.
2. Tali menzogne furono sostenute con documenti falsificati, con
lettere falsificate, con libri falsificati, con gesuiti inventati che
non furono mai tali, con dottrine inventate che i gesuiti non hanno
mai insegnato.
3. Di falsità intorno ai gesuiti, comprese le più stolte e
grossolane, se ne trovano perfino nelle riviste scientifiche più
accreditate, nelle discussioni e relazioni delle accademie, nelle
opere dei più celebri storiografi, filosofi e teologi.
4. È quindi contrario alla critica il citare quali autorità
contro i gesuiti tali scrittori, che furono convinti di simili
falsità.
5. Per le molte ed inaudite falsità, quasi universalmente
accettate dagli avversarii intorno ai gesuiti, la critica esige
assolutamente che si ammettano con diffidenza e circospezione le
accuse contro i gesuiti, anche se queste vengano espresse in opere e
riviste scientifiche, e che, prima di ripetere cotali accuse, se ne
faccia un diligente esame personale.
I gesuiti non han da temere di un esame serio e coscienzioso,
sebbene, da uomini fragili che sono, sappiano di non andar immuni da
pecche e difetti. Non temono di essere per avventura combattuti;
purchè si combattano, non colla menzogna e colla calunnia,
sibbene con armi leali. È questo d'altronde per l'avversario
onesto un obbligo di quella stima ch'egli deve, oltrechè alla
verità e alla giustizia, in primo luogo a se stesso [14].
Eppure non vi ha dubbio che, a dispetto di queste domande e di queste
regole così ragionevoli, eque e doverose, a cui non si può
mancare senza venir meno ai principii elementari della giustizia, la
guerra ai gesuiti continuerà come prima; anzi, per opera del
socialismo plebeo, si farà più accanita e popolare. La qual
cosa, considerata come mezzo utilissimo ad osservare il loro istituto
ed a raggiungerne il fine, non sarebbe pei gesuiti che un gran bene,
se tal bene non andasse congiunto coi danni che la diffusione della
menzogna, della empietà e della licenza, palliata quale
apostolato di verità e di morale cristiana, produce in mezzo al
popolo; danni che crescono e si moltiplicano a dismisura, per il fatto
innegabile che la pubblicità convenzionale delle calunnie contro
i gesuiti non rappresenta forse più di un millesimo della guerra
universale di menzogne e di fellonie contro la religione e la Chiesa.
Qui facciamo punto, lasciando inferire ai lettori, a maniera di
conclusione, di quanta vastità e importanza sia la missione
imposta oggidì ai cattolici, di combattere cioè con armi
pari, sul campo apologetico, contro le calunnie degli avversarii; e
quanto sia a ciò vantaggiosa, anzi necessaria, quella concordia
di propositi e quella concentrazione di tutte le nostre forze in un
istituto nazionale di difesa religiosa, di coltura e di propaganda, a
cui, coll'autorità che Gli viene dall'alto e colla sapienza
pratica che Lo distingue, ci ha testè chiamati, nella ven.
Enciclica sull'azione cattolica, il Sommo Pontefice Pio X.
NOTE:
[1] Bernhard
Duhr S. I. Jesuiten-Fabeln,
Ein Beitrag zur Kulturgeschichte, 4. Aufl., Herder, Freiburg im
Breisgau, 1904. Della 2a edizione di
quest'opera, unica nel suo genere e veramente insigne per valore
critico-storico, abbiam già pubblicato una larga rivista nel
quad. 1057, ser. XV, vol. XI, pp. 70 segg. Dopo la quale, il ch.
Autore fece parecchi nuovi viaggi scientifici in Francia, Italia e
Spagna, e raccolse quivi negli archivi abbondante materia da
arricchirne la 3a edizione; venendogli fatto
di trovare nel grande archivio di Stato a Simanca in Ispagna documenti
così importanti, che valsero a sciogliere parecchie questioni
fino allora rimaste insolubili. La 4a
edizione poi del 1904, che abbiamo sotto gli occhi, fu perfezionata
col frutto di nuovi studii fatti negli archivii e nelle biblioteche di
Monaco; con ridurre e riordinare la materia delle edizioni precedenti,
e con aggiungervi la confutazione di molte nuove accuse, che si
riferiscono a fatti della storia più recente, fino a questi
ultimi tempi. Noi vorremmo raccomandare a qualche coraggioso editore
italiano di far voltare quest'opera in lingua nostrana e
intraprenderne la pubblicazione, parendoci certo che il valore
critico-storico del libro, congiunto colla curiosa amenità del
soggetto e della esposizione, per cui l'opera si legge come un
romanzo, provvederebbero a coprirne abbondantemente le spese.
[5] Der
Zweck heiligt die Mittel als jesuitischer Grundsatz erwiesen.
Erweiterter Sonderabdruck aus der Monatsschrift
Deutschland, Juliheft 1903. pag. 5.
[11] Una confutazione compiuta
della calunnia, di cui abbiamo trattato, si trova nel libro, già
citato, del P. Duhr,
Jesuitenfabeln, pp. 542-563.
Quivi pure si narra la storia e l'esito di un'altra sfida, fatta a
Francoforte dal P. Roh nel 1852, rinnovata a Halle nel 1862 e nel 1863
a Brema, con un premio di 1000 fiorini a chi provasse, anche con un
solo esempio, da presentarsi alla facoltà giuridica
dell'università di Heidelberg o di Bonn o di Halle, che i gesuiti
abbiano insegnata la massima: Il
fine giustifica i mezzi. Il premio rimase esposto per 20 anni
e si estinse colla morte del P. Roh nel 1872! Cf. The
Immoral Teaching of the Jesuits del P. S. M. Brandi
I. nella American C. Quarterly
Review (luglio 1890) ove si trova un esame teologico dei
singoli moralisti gesuiti su questo argomento. Più: Gerard
S. I. The End Justifies the Means?
Catholic Truth Society, London.
[12] Fra gli altri, il
Berliner Tageblatt, in riferire la sentenza, protestò
che dall'assoluzione del Dasbach non si poteva trarre alcuna
conseguenza favorevole alla morale dei gesuiti!
[13] Fischer, l. c. p. 54.
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